Turchia nuova frontiera dell’horror, con un grumo di deliri tra Barker e Cronenberg
Baskin è piccolo pozzo di follia
infernale che, tra caproni, nani deformi e mutilazioni brutali, offre un
notevole squarcio sui divertimenti 666.
Can Evrenol ha una gavetta più lunga del
solito, ci sono ben otto corti con cui smussare gli spigoli a presentarlo su
imdb, e infatti è abbastanza evidente come le sue skills superino molti
colleghi ai primi passi tanto nella resa quanto nelle aspirazioni: se Baskin è un film gore, progettato e
dedicato a chi nell’horror cerca soluzioni carnomostruose inventive e
brillanti, in grado di andare oltre alla banali visioni della mera violenza
pornografica, ci sono molti aspetti che ne definiscono una personalità
intelligente, magari non originalissima nelle sospensioni adottate ma
intrigante, sintomo di idee precise che si sollevano dallo standard più basso e
diretto che potrebbe avere un film che, essenzialmente, parla di un team di
poliziotti imprigionato in un girone infernale.
Dai dialoghi tarantiniani con cui Evrenol fa
conoscere i suoi bad cops alla circolarità che definisce e vincola la
narrazione, passando per la disorientante insert song che i protagonisti
cantano in furgone, è chiaro che Baskin
ha già qualcosa in più di quanto sia lecito aspettarsi (per di più da una
nazione, la Turchia, che non credevo coltivasse simili germogli sanguinari), ma
ciò che più stupisce sono le sequenze di stop e improvvisa quiete che
scaraventano secchiate d’acqua gelida a uno spettatore sommerso da intestini e
corna sataniche.
Lo scambio di opinioni sui sogni, inatteso e
spiazzante, tra recluta e superiore, sparge i primi semi di un’inquietudine
malsana, distorta e sottile, che si amplifica nei momenti in cui Arda sembra
disancorarsi dalla realtà per approdare ai ricordi da bambino, agli orrori di
quella stanza che non poteva aprire e quel braccio che lo cercava nel buio.
Più che filmarle, con una lenta camera a
mano Evrenol insegue queste scene oblique e sulfuree, dilatando oltremisura i
tempi tipici di un horror con simili intenti truculenti attraverso dettagli
insistiti che mettono a disagio (il taglio delle bistecche, la famiglia
accampata a bordo strada, per non parlare dei poliziotti stessi, corrotti,
violenti e veramente viscidi), e bloccando ogni sviluppo con pause silenziose
di straniante bellezza (il grido nel bagno, il tuffo nell’acqua). Quello che
crea è un crescendo atmosferico abbastanza diverso da quello che ci si può
aspettare: passano molti, molti minuti prima che i poliziotti entrino nella
casa abbandonata per rispondere alla chiamata d’emergenza, e anche all’interno
dell’edificio la discesa demoniaca è per certi versi calma, immobile, priva di
qualsiasi picco di azione.
Il resto, be’, il resto è una bolgia di
sangue e di visioni bestiali ma, pur rendendosi necessario un bello stomaco
d’acciaio per dare congruenza alle ferocità inscenate, nello stesso modo in cui
un certo tocco d’autore alza il livello generale di Baskin, anche nella gestione delle brutalità traspare una cura
maggiore e una maturità che porta a evitare una sequenza di splatterate
gratuite e slegate con il solo intento di forgiare shock.
Qui assistiamo a uno show di uomini-bestia
che si cibano di cadaveri, mutilano persone ancora vive, copulano con carcasse
non ben definite, estirpano occhi, aprono addomi e chi più ne ha più ne metta,
eppure è chiara la costruzione che regge il sabba e omologa la serie di
efferatezze in un lungo, asfissiante e mostruoso rito sacrificale atto
ovviamente alla nascita terrena del Capro.
Notevoli poi gli scenari fumosi e
soffocanti, e ottima la scelta fotografica di toni cupi e bluastri che,
accompagnato da manciata di synth ipnotici, dona un fascino retrò, e forse
ancora più intenso, al film.
Credo basti, che dite?
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