Un film gustoso per perdere l'appetito
Ho ancora una manciata di cose interessanti sul
2016 di cui scrivere, mi sono scappate sul finire dell’anno e conto di tappare
i buchi nelle prossime settimane. In compenso non ho parlato di tre grossi film come Green Room, Don’t Breathe e The Neon Demon, per vari motivi li ho
visti molti mesi dopo le loro uscite e credo che il web italiano non abbia
bisogno del mio parere per sapere che sono molto belli: non è una lagna o un
discorso legato alla piccola portata del fhtagn blog, bensì alla portata stessa
di simili opere.
Potrei dire che siamo in un posto infestato da
squali e che bisogna nuotare alla svelta, perché se arrivi tardi ti sbranano. Ma
pubblicare un pezzo quando tutti gli altri ne hanno già parlato non cambia più
di tanto la visibilità sui motori di ricerca. In realtà il ragionamento è un
po’ diverso, perché mi limito a scrivere di quello che mi piacerebbe trovare in
un altro blog, o sito, o realtà, insomma, avete capito.
Come immagino capiti ai miei colleghi, ho una
grande, grande fame di cinema horror di piccolo taglio, non sono mai sazio e
continuo, continuo a setacciare ovunque. È inevitabile che, a scavare tra
torrenti e portali dedicati con una perseveranza ossessivo-compulsiva, non mi
soffermi su cose che già conosco. Lo so già che Green Room e Don’t Breath
sono belli, ne hanno parlato tutti.
Un lettore (seguite il suo blog, moltissime
segnalazioni interessanti, è uno dei pochi che clicco quotidianamente nella
speranza di più aggiornamenti) mi dice che amo il cinema di genere che non ha
visto quasi nessuno, ed è verissimo. Io ho bisogno di gemme più nascoste,
difficili da trovare, quelle che si riesce a rimirare solo dopo decine di
cantonate e vagonate di trailer speranzosi.
Io ho bisogno di cose come Eat.
L’esordio di Jimmy Weber è un minuscolo film
uscito in VOD sul finire del 2014, poco conosciuto, che sembra non aver girato
molto i festival, racimolando giusto un paio di premi in organizzazioni minori.
Non ne ho letto molto in giro, l’avevo adocchiato a suo tempo ma la poca
consistenza delle chiacchiere web me l’ha fatto dimenticare, salvo poi riuscire
a recuperarlo in questi giorni.
È un vero peccato che sia passato così
inosservato e che non abbia ricevuto il riscontro che meriterebbe, è un bel
contributo al body horror e ha parecchia potenza in più rispetto a recenti
compagni maggiormente celebrati (American
Mary, Excision, ci metterei pure Thanatomorphose), tanto nelle soluzioni
gore ultrascioccanti quanto nell’estetica, molto simile a quanto avrebbe fatto
un paio di anni dopo Refn con The Neon
Demon, seppur privo di un eccesso stilistico così personale.
Eat è una storia di arrivismo frantumato, di sogni
così spinti da sviscerare pura malvagità: Novella McClure ha ormai trent’anni e
vagabonda di provino in provino nella vana speranza di poter ancora sfondare in
un mondo, quello del cinema, che più volte le ha mostrato di non avere bisogno
di lei. Stanca, disillusa, conscia che la sua vita non ha senso, è pronta a
salutare Hollywood, quando un ultimo piagnucolio cinematografico la tormenta
fino a farla infuriare. È in quel momento che scopre di avere fame.
L’autocannibalismo non è considerato un
disordine mentale, ma appartiene comunque a quel range di disfunzioni
ossessivo-compulsive che conducono inevitabilmente verso schizofrenia e simili.
Di certo Novella non sta bene, è esaurita e stressata da una scelta di vita
che, dal suo punto di vista, l’ha tradita con un coltello piantato sulla
schiena. Quando sono nervoso, io mi mangio le unghie (e per alcuni sembra che
anche questo sia autocannibalismo), lei invece si divora i piedi e le braccia,
ha un impulso irrefrenabile che il suo corpo ha irregolarmente direzionato su
se stesso, e solo così ritrova una parziale serenità.
Le sequenze voltastomaco sono furiose, insistite
e allucinanti, in più di un’occasione mi è capitato di distogliere lo sguardo
(quando ci sono unghie spezzate di mezzo io devo gettare la spugna, per quanto
mi riguarda sono tra le più ustionanti di sempre), gli effetti sono più che
discreti e colpiscono come un cazzotto dritto sul naso. Ma il pregio maggiore
di Eat è la leggerezza con cui Weber riesce
a calibrare queste parentesi ripugnanti con la quotidianità tragicomica di
Novella, l’impatto è molto forte e lascia disorientati ma l’apparenza molto
colorata e musicalmente pompatissima, con un amore puro per gli anni Ottanta
che non si trasforma mai in operazione nostalgica, risucchia ogni disgusto e
non ne lascia che vaghe tracce, simili a quelle impalpabili di un incubo.
I momenti in cui Novella deve automangiarsi sono
infatti governati da uno stato di trance visiva-musicale di grande gusto, la
direzione precisa e ispirata di Weber e l’accompagnamento tecnoelettronico (le
musiche, così come la sceneggiatura e il montaggio, sono opera sua) lo
sottolineano con un ritmo marziale che scandisce ogni istante del delirio
gastronomico.
Lei è raggiante anche nei momenti di maggior
devastazione, vederla zoppicare nei tacchi pur di partecipare a un provino,
quando sappiamo che a quel piede zoppo mancano delle dita che lei stessa ha
ingoiato, lascia sempre basiti, e Weber riesce a dipingerne una splendida
figura disillusa, amara, triste e sola.
Il resto del film viene costruito con scene tra
la commedia e il dramma con un’ironia in sottofondo sempre perfida e stronzetta:
tra battibecchi tra amiche, ricerca di amori, scontri in discoteca e lotta con
le rivali i punti focali della vita di un’attricetta senza futuro vengono
toccati tutti, ma probabilmente il momento migliore di Eat è il provino con il regista porno, cinque minuti davvero acuti e
gestiti con una professionalità non altrettanto brillante nel restante
minutaggio.
A danneggiare buoni propositi e aspirazioni
sicuramente elevate sono dei dialoghi statici e preimpostati, un epilogo troppo
disumano e stonato, e soprattutto un cast non all’altezza dei ruoli previsti,
con attori che sovrarecitano quando solo Meggie Maddock sa distinguersi per
sorriso smagliante e ottimismo sfrenato. A tratti si soffre infatti oltremisura
il taglio economico, ed è inevitabile: Eat
è un film minuscolo e non c’è modo di nasconderlo.
Ma è comunque una piacevole sorpresa, e Weber un ottimo regista da seguire.
Ma è comunque una piacevole sorpresa, e Weber un ottimo regista da seguire.
Non ne avevo mai sentito parlare, grazie per la segnalazione.
RispondiEliminaBlissard
Prego :)
EliminaChe sorpresa...veramente un ottimo body horror. L'ho preferito anch'io a "excision" che in minima parte mi aveva un po deluso. La protagonista è di una toccante interpretazione, ti fa entrare in empatia con il suo personaggio.
RispondiEliminaAnche a me è piaciuto molto più di Excision, anche perché qui il binomio sofferenza-disgusto è più marcato e colpisce più a fondo. Grande film. :)
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