Il vincitore del Bram Stoker sbarca in Italia a suon di esorcismi e citazioni
Dunque, com’eravamo messi con l’horror in
libreria? Eravamo messi che, più o meno, l’horror in libreria non esisteva più,
un’avaria allucinante che continua tuttora con degli enormi paraocchi e
pregiudizi contro qualsiasi libro del terrore che non riguardi King, suo figlio
Joe Hill, gli zombie e le solite ristampe lovecraftiane (tutta la merda
paranormal e young adult non è horror e non ci interessa).
Potrei sbagliarmi, ma se provo a dare uno
sguardo all’indietro, credo che l’ultimo romanzo horror “nuovo” pubblicato da
una major sia E alla fine John muore,
di David Wong. Era il 2014 e Fanucci provava forse a surfare sull’uscita di un
bellissimo film (che però in Italia non è uscito) traducendo un libro pazzo,
furioso e lontanissimo da qualsiasi appeal categorico, originariamente
pubblicato però ben sette anni prima. Quindi non proprio una novità. Immagino
non abbia avuto molta fortuna, come inevitabilmente capita alle cose un po’
strampalate, ora lo si trova su Amazon a metà prezzo e questo dice tutto.
Qualcos’altro? La trilogia Nocturna di Guillermo del Toro e Chuck Hogan che Mondadori ha
pubblicato tra il 2009 e il 2012. Poi, boh, Drood
nel 2011, con una brava Elliot che rendeva giustizia alla complessità narrativa
di uno dei migliori romanzi di Dan Simmons. Ah, Urania ha pubblicato un vecchio
Ramsey Campbell, La faccia che deve
morire, ma è un suo romanzo minore che va a distaccarsi dal bel operato
soprannaturale. Mi mancano altri titoli, voi ne avete qualcuno?
Qualche anno fa Gargoyle Books, l’unico vero
editore horror italiano, che aveva ridato lustro a Ketchum, Simmons, McCammon e
Laymon, veniva risollevato dal tracollo causato da una scelta di titoli non
sempre eccellente (vi ricordate quella cosa illeggibile di Varney il vampiro, pubblicato in TRE VOLUMI?). Ma con il cambio
editoriale, che sviava dall’horror abbracciando fantasy e fantascienza, e con
la persistenza di problemi insormontabili (le traduzioni spesso goffe e
improprie), finiva di nuovo nell’abisso pur pubblicando nomi interessanti (a me
non piacciono, ma hanno il loro pubblico, il loro spazio e sono state NOVITA’)
come John Scalzi e Joe Abercrombie. Non era più l’unico editore horror, ma era
quantomeno l’unico di genere, e si difendeva benino. Ora è ripartita per la
terza volta, ma ha mire ancora più diverse e non rientrano in questo articolo.
Non si può parlare di fine di un’era, in Italia
non è mai esistita un’era dell’horror, ma per alcuni anni Gargoyle Books è
stato un bell’esempio, naturalmente del tutto maltrattato dai colleghi più
grossi, che mai hanno anche solo provato a imitarne l’operato per accontentare
quella fetta di pubblico comunque viva (be’, dai, Mondadori ha provato a
prendere per il culo tutti con Epix, e ci è riuscita appieno con una selezione
di titoli per cerebrolesi). Ora come ora, al di là di Fanucci, a cui va dato il
merito di proporre titoli più o meno importanti di fantasy e fantascienza nuova
e vecchia, Mondadori, Einaudi e gli altri colossi relegano l’orrore a
un’inutile protuberanza della narrativa.
Del tipo, esiste, ma facciamo finta di non
vederla.
Mi piacerebbe scrivere un articolo ben più
corposo sulla situazione attuale della narrativa horror (e di genere) in Italia
(e prima o poi lo farò), sottolineando come gli editori stessi abbiano
distrutto il mercato e allontanato il pubblico dal piacere della lettura, salvo
poi piangere che la gente non compra libri e non legge più e Amazon è brutto
cattivo e gli ebook sono il male.
Ci troviamo nello stomaco di un serpente che si
mangia la coda e nessuno vuole afferrare una cazzo di mannaia per tagliarlo a
metà e lasciare uscire le viscere.
Tocca ai piccoli editori rimboccarsi le maniche
e riempirsi di debiti per portare in Italia nomi internazionali, con la sola
protezione di uno zoccolo duro di fan che è rimasto dormiente e paziente e che
ancora spera in una qualche ripresa della scena. È qualcosa, un qualcosa di
prezioso e da difendere a spada tratta, ma siamo pur sempre nella
microeditoria, dove le vendite arrivano a un massimo di tre misere cifre che
non offrono alcuna sicurezza.
Dubito che con Nel buio della mente la situazione possa tornare prospera e felice
come vent’anni fa, e anche se è chiaro come il romanzo di Paul Tremblay trovi
spazio nelle librerie nostrane per il solo merito di diventare presto un film
sulle possessioni capitanato di Robert Downey jr., è comunque una graditissima
e insperata sorpresa da parte della Nord.
Non so bene cosa pensare del Bram Stoker Award.
Lo scorso aprile Brian Keene ha scritto sul suo
sito una lunga critica al premio e all’associazione che lo promuove, sottolineando
nomi e facendo accuse precise, con quel tono lucido di chi ha le mente sgombra,
sa bene quello che sta dicendo e non ha paura di farlo. Di certo Nel buio della mente non arriva in
Italia in virtù del premio, né a me interessa più di tanto che abbia ricevuto
tale riconoscimento, ma si tratta comunque di quel “qualcosa” che ti porta
involontariamente ad aspettarti una storia di un certo livello.
Cosa su cui non ho dubbi: Paul Tremblay ha
scritto un romanzo di valore, ispirato e pregno di un’intera cultura horror
senza che per forza le citazioni ne ribaltino la potenza espressa. Nel buio della mente non è solo un
romanzo sulle possessioni, né tanto meno, come potrebbe sembrare dopo le prime
pagine, una sorta di riproposizione di L’esorcista
in chiave più attuale: è il compendio di tutto questo e una vera e propria indagine
sull’horror, scritto e girato, tra le più sottili mai generate, una riflessione
sul male e chi lo genera. Ed è un peccato che tutto questo passerà
inevitabilmente in secondo piano, o verrà del tutto ignorato, perché tanto
questo è il romanzo da cui sarà tratto il film.
La storia è quella della famiglia Barrett,
intrappolata tra la disoccupazione del padre John e gli strani atteggiamenti
mostrati da Marjorie, la figlia più grande. Dapprima tenuti a bada da una
terapia farmacologica, man mano che si fanno più insistenti vengono contattati
nuovi esperti fino a richiedere l’intervento della Chiesa stessa. Fiutato il
furbo successo, Discovery Channel trasforma la vita della famiglia Barrett in
un reality.
A raccontare della progressiva distruzione della
comunque poca serenità quotidiana è la figlia più piccola, Merry, talmente
affezionata alla sorella da non riuscirne più a distinguere i momenti di
lucidità da quelli di follia. Ed è proprio in questa parole che sta tutto il
concetto del romanzo: non è mai dato sapere se Marjorie sia realmente posseduta
da un demone, perché Tremblay preferisce costruire scene dove sia la pura
ambiguità la vera protagonista, annullando in un piano di semplice interpretazione
personale tutto il resto.
Ogni avvenimento è avvolto da una coltre di
dubbio impenetrabile, ogni situazione può essere letta in due o più modi
diversi, ogni scena viene destrutturata da una serie di dettagli che di volta
in volta capovolgono quanto detto prima, in un vortice senza fine di mistero
indecifrabile. La domanda a cui (non) viene data risposta è principalmente dove
risiede il male e, anche se all’apparenza la dicotomia rappresentata da
Marjorie può sembrare banale (c’è un demone dentro di lei o è semplicemente
pazza?), in realtà c’è un grande, grande lavoro per rendere strano, vago e
sfuggente anche il più piccolo aspetto in gioco. La disperazione della madre,
la debolezza del padre, la fierezza del prete, ma anche i (veri?, falsi? Boh)
doppio giochi della troupe televisiva mandano in continuo cortocircuito ogni
proposito di razionalizzazione degli eventi.
Ci sono due elementi che impreziosiscono
ulteriormente il romanzo: l’ambientazione odierna e gli insistenti riferimenti
alla cultura horror. È un’accoppiata abbastanza incredibile che, ancora una
volta, sfrutta una base di spartana semplicità (il reality in cui è trasformata
la vita dei Barrett, il blog gestito dalla stessa Merry una volta diventata
adulta, i dvd e i libri posseduti) per irrobustire la riflessione sprigionata.
Di fatto, come già scritto, Nel buio della mente non è che una riproposizione de L’esorcista (scene identiche come la
masturbazione col crocifisso o la camminata da ragno vengono coscientemente e
volutamente riproposte), ma è proprio nel modo in cui Tremblay gioca con questo
stato, accumulando citazioni su citazioni, che il romanzo diventa qualcosa
d’altro, una sorta di meta narrazione seppur non venga mai abbattuta la quarta
parete. Terreno difficile, ma gestito benissimo.
Quasi una provocazione, sembra che Tremblay voglia affermare che la potenza suggestiva dell'horror, e di questa storia di possessioni in particolare che tutti conosciamo, possa essere (ri)evocata grazie alla forza del concetto espresso e delle riflessioni suggerite, pur raccontandola di nuovo tale e quale. Uno schiaffo alla ricerca dell'originalità ma anche alla necessità di sovrastrutturare vicende che, oltre al vuoto, nulla hanno da offrire.
Qui si viaggia in profondità, e si sfiora il nocciolo, il nucleo sulfureo dell'horror.
Quasi una provocazione, sembra che Tremblay voglia affermare che la potenza suggestiva dell'horror, e di questa storia di possessioni in particolare che tutti conosciamo, possa essere (ri)evocata grazie alla forza del concetto espresso e delle riflessioni suggerite, pur raccontandola di nuovo tale e quale. Uno schiaffo alla ricerca dell'originalità ma anche alla necessità di sovrastrutturare vicende che, oltre al vuoto, nulla hanno da offrire.
Qui si viaggia in profondità, e si sfiora il nocciolo, il nucleo sulfureo dell'horror.
Va anche detto che, dal solo punto di vista
della lettura, è un gran bel leggere: Tremblay scrive bene, è accurato, lento e
profondo, crea una discreta tensione e sa come spezzare la narrazione per
invogliare la lettura. È un po’ strana la scelta verbale di un trapassato
prossimo, ma dopo un inizio perplesso ci si fa l’abitudine e non disturba
troppo. Solo nelle sezioni legate al blog di Merry viene un po’ meno la serietà
stilistica, Tremblay abbassa i toni e riveste l’espressione critica di
esclamazioni forse troppo giovanili e stupidine che stridono con le riflessioni
evocate.
Insomma, è davvero un bel romanzo, e per una
volta tanto l’edizione italiana è indovinata e ben tradotta. Non lasciatevelo
scappare.
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