The Sleep Curse (2017)

By Simone Corà | lunedì 28 agosto 2017 | 00:01

Herman Yau e Anthony Wong di nuovo insieme per un horror che profuma di CAT III. Secchi per raccogliere le viscere ne abbiamo?                                 

The Sleep Curse è stato presentato come un ipotetico terzo atto dopo The Untold Story ed Ebola Syndrome, con il regista Herman Yau e il grande Anthony Wong di nuovo insieme per un horror truculento come solo Hong Kong faceva negli anni dei deliri CAT III. Siamo ben lontani da quei tempi, quando i miscugli tra gore, depravazione e comicità macabra erano all'ordine del giorno: Yau oggi è diventato una macchina instancabile con due o più film all'anno che spaziano tra tutti i generi, e The Sleep Curse è più una parentesi sanguinaria tra un lavoro e l'altro che un vero e proprio ritorno alle origini. È un film rozzo e grossolano, mischia tante cose assieme ma privo ormai di quel genio sregolato degli anni Novanta a dare credito a tanta follia, eppure tra momenti indovinati e altri che rasentano il ridicolo involontario, ci sono buone scelte e, bisogna dirlo, rivedere Wong armato di mannaia affettare gratuitamente un sacco di persone è quasi commovente. 
Il film è un'indagine abbastanza pasticciata sull'insonnia che colpisce i componenti di una famiglia: la mancanza di sonno porta ben presto alla pazzia e a feroci aggressioni ai danni dei parenti stessi, fino a una completa lobotomia fatale. Wong interpreta uno scenziato e professore che ha speso un'intera carriera studiando i misteri del sonno, la sua funzione sul corpo umano e la possibilità di una vita priva di esso. Si ritrova a esaminare questo caso con molto scetticismo, per poi ricredersi man mano che il passato torna prepotente a fargli visita.
Poca scienza, un po' di magia nera, fantasmi a casaccio e parecchio jibber jabber superficiale, il tema della privazione del sonno è affrontato da un binomio scientifico/spirituale sulla carta curioso ma in realtà quasi patetico, ci sono solo lunghi spiegoni costruiti con lessico elementare e bisogna attendere una mezzoretta prima di trovare il vero cuore del film.

Nel corposo flashback che occupa quasi metà della pellicola c'è infatti una bella marcia in più, con una sentita storia di guerra, occupazione, problemi famigliari, abuso sullo donne e vendette occulte, dove i personaggi hanno un grande respiro e la tensione è dosata con notevole esperienza. Yau detta ritmi più serrati e modella con più cura le scene, e paradossalmente riesce anche a osare ficcando l'orrore soprannaturale in una vicenda che è già bestiale di suo. L'invasione nipponica e la dittatorialità dei soldati dell'imperatore mette in ginocchio un povero padre di famiglia (sempre Wong), che si vede costretto a collaborare con il nemico per proteggere i suoi cari, ma il suo aiuto passerà anche attraverso una lunga serie di rapimenti, prigionie e ragazze costrette alla prostituzione, fino a quando non ne avrà abbastanza e deciderà di liberarne una. 
L'impressione è che Yau non volesse intenzionalmente ricreare un CAT III (di cui si potranno respirare il marcio e il putridume solo negli ultimi quindici minuti), ma una sorta di horror storico di fantasmi e maledizioni. A parte una manciata di scene gustosissime (crani spaccati e cervelli sezionati con quel gusto gore tipico degli anni Novanta orientali), tutto il film è privo di esagerazioni violente, e soprattutto in questa parte ambientata nel passato si concentra su forti drammi umani con una bella definizione dei cattivi e della sofferenza umana, con paio di sequenze di inaspettata poesia del dolore (per esempio la fila per il cibo prima e dopo il tradimento). Quando entra in gioco il soprannaturale ci sono vistosi alti e bassi, Yau è bravo a creare atmosfera utilizzando ombre e trucco, con un fantasma fatto di carne putrefatta, ma puntualmente la distrugge a suon di apparizioni del tutto superflue, che di certo non fanno paura. È cinema horror sgangherato, come spesso accade a Hong Kong, fatto di tecnicismi esasperati e incongruenze scellerate, prendere o lasciare, ma Wong è molto bravo e tiene in piedi tutto il film sulle sue spalle. 


Il meglio Yau lo riserva come detto alla fine, un quarto d'ora di squartamenti, cannibalismo, evirazioni e grandi spruzzi di sangue. Un circo di scene esagerate e allucinanti, a tratti prive di vere motivazioni e create più per un facile shock visivo, ma dannatamente efficaci. Insomma, alla fine non è granché, e come sempre il marketing devia parecchio dal prodotto finale, ma in fondo ci si diverte e, per chi ha amato certe categorie dell'horror, non può che innescarsi anche un poderoso effetto nostalgico. Speriamo adesso che Yau continui su questa strada e, a fianco dei film più commerciali, non disdegni quelle atrocità cinematografiche che lui stesso ha contribuito a disegnare quasi trent'anni fa.

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