Dall’Irlanda, un horror che in realtà è un
rituale lungo diciotto mesi. Quando la magia nera è l’unica soluzione per
sistemare ogni faccenda
Si è sempre cercato in molti modi di rispondere
a un interrogativo feroce come “cosa saresti disposto a fare per”, sia nelle
sue varie inclinazioni (rivedere una persona cara, vendicare una vittima), sia
nella sua visione più generale (sopperire il dolore). Ma alla violenza, alla
gestione del lutto, alla vendetta e a tanti altri spunti che hanno sempre
alimentato il cinema horror, A Dark Song
ribatte con una complessità e una concretezza raramente visti altrove. Cinema
rituale, occulto ma anche profondamente spirituale, l’esordio su lunga distanza
dell’irlandese Liam Gavin è un contorto e personalissimo approccio all’orrore
attraverso una lunga preparazione fisica, mentale e ambientale al fine di
evocare una divinità che possa permettere a Sophia di parlare con il figlio
morto.
Il film è basato su materiale e studi autentici,
nella fattispecie il Libro di Abramelin, un grimorio cabalistico dove un mago
egiziano scriveva in forma epistolare al figlio i tortuosi diciotto mesi
necessari per l’evocazione di un angelo custode, e la successiva acquisizione
di conoscenze e poteri con cui inchiodare e comandare i maggiori demoni
infernali. Storia che si fonde con il mito e che si basa a sua volta su secoli
di traduzioni deficitarie, parziali o colme di errori, ma non priva di quel
fascino dell’ignoto che accompagna la magia nera nella sua accezione più credibile
– nel film stesso non viene infatti mai reso noto o quanto meno menzionato un
elenco dei processi indispensabili per il completamento del rituale, soluzione
che non priva in alcuni modo di attendibilità ma che viceversa rende ogni
preghiera e ogni gesto pregni di un delizioso mistero.
Sophia e l’occultista Solomon sciorinano litanie
incomprensibili, si prodigano in gestualità oscure, disegnano cerchi magici e
bevono sangue offrendo solo alcuni input per una comunque sempre parziale
comprensione dei meccanismi cabalistici, perché non è la penetrazione nelle
dinamiche del rito lo scopo del film, bensì un lasciarsi andare a una
progressiva scarnificazione psicologica per arrivare preparati e depurati
all’incontro con il divino.
La purificazione di Sophia è un processo che
comporta un allontanamento non solo da ogni piacere umano (se alcol e sesso
sono i primi elementi da epurare, sono anche i primi di cui Sophia non ha più
bisogno da tanto è forte la sua convinzione nell’esito positivo del rito), ma
da ogni umana resistenza: la scrupolosità delle orazioni, la necessità delle
posizioni all’interno dei cerchi, la pazienza di fronte al dolore e alle
lunghissime tempistiche sono sfide che mettono a dura prova il suo organismo
già deperito dal dolore e dall’incertezza nella riuscita dello spossante
cerimoniale. A ciò si aggiungono una graduale ipersensibilità al reale
svolgimento del tempo e all’alternarsi di realtà e allucinazioni, ma sono
soprattutto il totale affidamento e il relativo abbandono a un uomo, Solomon,
che è tutto fuorché la guida spirituale di cui una persona in questa situazione
avrebbe bisogno, bensì un mago che sgretola una personalità d’acciaio come
quella di Sophia, talmente decisa nelle sue intenzioni da non temere un faccia
a faccia con chiunque esista dall’altra parte.
Non serve ricordare la bontà, il carisma, la
forza e la fiducia che squadroni di esorcisti hanno comunicato a famigliari
distrutti, e neanche quelle occasioni in cui conduttori capaci di equilibrare
gli sforzi hanno nobilitato forza e rabbia come soluzioni al dolore – di certo
si potrà ricordare il Solomon di Steve Oram come uno spiritista disadattato,
egoista e perfido, che nessun interesse ha nell’evocazione se non un tornaconto
personale fatto di soldi (pochi), fama (nulla) e appagamento (alle stelle).
Sembra essere lui ad avere bisogno di chi accorre in suo aiuto, perché è lui
stesso ad anteporsi a qualsiasi richiesta sfruttando, ferendo e umiliando
Sophia con il meschino desiderio di raggiungere la fine del rituale e la compenetrazione
tra i mondi.
Si sa che a scomodare i diversi piani spirituali
si possono infastidire forze ben poco amichevoli, e il rischio maggiore che
comporta il progressivo abbattimento dei muri separatori, necessario per far sì
che la divinità percepisca la presenza di Sophia, è che molte altre presenze
captino le sue preghiere e ne cerchino il contatto. Il terzo atto di A Dark Song, come copione vuole per ogni
film horror che si rispetti, fa piombare l’oscurità su un ambiente però già
tetro e scomodo, creando uno scenario infernale fatto di profonde, enigmatiche
movenze e comportamenti animaleschi che possono ricordare, pur senza il ricorso
a un simile gore sfrenato, il recente Baskin.
È qui che A Dark Song raggiunge il
suo culmine, sublimando mille sforzi in un’improvvisa ricaduta che rischia di
mandare tutto all’aria attraverso pareti d’ombra, presenze che si muovono sullo
sfondo e improvvisi assalti di bestie innominabili. Questo è grande cinema
horror, fatto di scomode suggestioni, stati febbrili e ombre palpabili. Spesso
non servono nemmeno i jump scares, se la tensione è così ben modellata.
Un film piccolo ma imponente, come spesso accade
tra le sorprese più imprevedibili del cinema horror indie abbiamo a che fare
con uno splendido equilibrio tra idee, esposizione e costruzione dell’orrore,
con una personalità che svetta per intensità e per armonia con i due
meravigliosi protagonisti, Steve Oram e Catherine Walker.
Di nulla. Anch'io ho atteso un po' prima di vederlo perché non riuscivo a fidarmi troppo della presenza di due soli attori, ma è una bella bombetta :)
RispondiEliminaGuardato proprio poco fa. Sinceramente non so ancora che pensare, il regista ha studiato, fa dire ai personaggi cose che solo chi è adentrato almeno un poco nell'occulto conosce, ma per il resto tira fuori un po' di sciocchezze e un po' di cafonate (quella finale se la poteva risparmiare in cira 200 modi diversi).
RispondiEliminaC'è da dire peró che non mi ha annoiato un secondo nonostante l'estrema lentezza e che ha un fascino psicologico incredibile.
EliminaMah, sciocchezze e cafonate io non le ho viste, mi è sembrato un film compatto e ben pensato dall'inizio alla fine. Concordo però sul finale, anch'io lo avrei preferito diverso da un punto di vista decisionale eppure è giusto così, perché il personaggio di lei chiude il suo cerchio ed era forse la scelta migliore da fare. :-)
EliminaParlo di sciocchezze relative al rituale, non dal punto di vista cinematografico ;)
EliminaAh, okay, sì, ci può stare, anche se io sono rimasto così coinvolto da non aprire mai bocca :)
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