Un curioso progetto tra documentario e film horror, dal papà di Supersize Me
Da non confondere con l’omonimo cult micidiale
di Bruno Mattei, dove una truppa di scimuniti combinavi disastri demenziali in
una delle più becere post apocalisse mai inscenate dal cinema b-movie tricolore
(a essere sinceri è difficile da confondere, ma a leggere il titolo la mia
mente va dritta dritta agli uomini topo con la tuta radioattiva che
imperversavano nel finale di quel vecchio, indimenticabile trash movie), Rats è il nuovo documentario di Morgan Spurlock, che in Italia conosciamo solo per Supersize
Me, opera che gli ha anche appiccicato addosso un’etichetta di autore anche
non troppo intelligente.
In realtà mr Spurlock ha raccolto ben più spessore
in patria con altri lavori (argomentando su Bin Laden, la pubblicità e il mondo
dei comic) che non ho visto ma che lo precedono di fama e sembrano abbastanza
curiosi, rendendolo quantomeno un autore trasversale (ne ha fatto pure uno
sugli One Direction) e senza timore di affrontare i generi.
Che Spurlock sappia costruire un documentario è
infatti lampante, e questo Rats è un
esempio soprattutto a livello di tecnica e di veicolo delle immagini, dato che
il materiale raccolto è stato così tanto manipolato e ricostruito da arrivare a
creare qualcosa di bizzarro e in qualche modo indefinibile, molto diverso dal documentario tipo per mezzo
di una narrazione implicita che trasforma l’opera in una sorta di vero e
proprio film dell’orrore.
È vero, si può dire che a Rats manchi un approfondimento più marcato, o che magari nelle
interviste presentate non si scavi mai davvero a fondo per toccare quei tasti
che solo i documentari migliori sanno far risuonare, ma non credo fosse questo
l’intento ultimo di Spurlock. Lui fotografa alcune periferie tremende di alcuni
tra i posti peggiori del mondo e le assembla come se fossero scene di un film, componendo
così una vera e propria storia dove la minaccia dei topi sembra un qualche
risveglio di entità sotterranee intente a conquistare tutto ciò che sta sopra
la loro testa.
Ora, l’universo dei topi è un qualcosa che non
riusciamo mai realmente a percepire perché i topi, in fondo, hanno sempre fatto
parte delle nostre vite e, da che mondo e mondo, hanno sempre vissuto in un
qualche tipo di contatto con l’uomo. Sappiamo che portano terribili malattie ma
magari si ignora che in Vietnam li mangiano (e sono pure un piatto prelibato).
Sappiamo che germogliano nei terreni più paludosi e sporchi ma magari si
trascura che a New York la spazzatura venga lasciata in strada e faccia da
culla a intere colonie. Sappiamo che in India le condizioni igieniche non sono
delle migliori ma è facile sottovalutare che i topi possano rappresentare una
fonte alternativa di guadagno.
E anche se il gran lavoro di montaggio e l’indovinata
strategia iniziale creano un prodotto curioso e deliziosamente furbetto,
Spurlock fa ciò che un documentarista dovrebbe fare: osservare. Squadre di cacciatori
che uccidono ratti a mani nude, cani addestrati a stanare e sbranare i topi che
si nascondo nei campi della campagna inglese, clienti golosi che vengono da
tutta l’Asia per abbuffarsi di topi cucinati in decine di maniere diverse,
ricercatori che sezionano ed esaminano i parassiti che infestano gli organi dei
topi raccolti, e via così.
Da una parte Spurlock assembla questi sfondi
come se fossero delle vere e proprie modalità di sopravvivenza all’inferno che
presto invaderà la Terra, dall’altra evidenzia semplicemente una serie di
approcci, se così li vogliamo chiamare, al problema. Perché, in definitiva, i
topi ci sono e ci saranno sempre, e non è tanto sulla loro esistenza che si
basa il fulcro dell’opera, bensì su una semplice domanda: come ci convive l’uomo?
Spurlock non nega niente alla telecamera e
inquadra ogni tipo di morte possibile: i topi finiscono avvelenati, squartati,
mangiati, spellati, sbudellati, strozzati e decapitati in gran misura. Molte
immagini sono ripugnanti e nell’insieme la visione non è di certo tra le più
leggere, ma al di là delle critiche abbastanza frivole sulla scelta di filmare
tutto, ciò che emerge sono alcuni aspetti realmente terrorizzanti sull’evoluzione
dei topi, sulla progressiva resistenza ai veleni, sull’intelligenza con cui i
gruppi più numerose sfuggono alle trappole, e su ciò che potrebbe concretamente
accadere se la situazione sfuggisse di mano. Non una cosa così impossibile, tra
l’altro.
Il modo in cui si presenta Rats è frutto di un’abile ricerca estetica ed è anche un divertente
metodo alternativo per parlare di un orrore atavico, ma oltre all’apparenza
quella stessa paura primitiva affiora piano e sembra sfiorare la schiena con
dita gelide.
Neanch'io lo conoscevo, più che altro perché non seguivo molto il regista. E' arrivato un po' così, per sbaglio, girovagando su Netflix. :)
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