Grossi mostri carnivori from outer space in questa preziosa gemma gore
Nell’attesa che il 2017 esprima tutta la sua
potenza (si può fare meglio del 2016, dai che non è così difficile!), ho deciso
di rivitalizzare il blog (ho anche acquistato il dominio, l’avete visto che
stiloso e professionale?) e approfondire certe tematiche che da sempre mi
riempiono la testa.
Parlare di film nuovi e sconosciuti è bello e mi
tiene in forma, ma c’è tanta di quella roba negli anni pre-duemila che sarebbe
un peccato non rispolverare e tirare a lucido un due-tre argomenti che si
incastrano alla perfezione tra le mie manie ossessivo-compulsive e quello che
ho scritto in tutti questi anni.
Si comincia così con un tema un po’ banale, un
grande classico di cui non potevo fare a meno. Proviamo a fare i seri.
Il mostro, secondo il dizionario, è una creatura
mitica risultante da una contaminazione innaturale di elementi diversi, e tale
da suscitare l’orrore o lo stupore. Orrore (come repulsione) e stupore (come
meraviglia) sono i miei cardini dell’horror. Prima ancora della paura,
dell’ansia e dell’inquietudine (per carità, sono fondamentali, ma ora non mi
interessa definire cos’è esattamente l’horror, per quello magari leggete Danse Macabre come ho appena fatto io,
ottima lettura, forse un po’ datata, ma ancora assai godibile), esiste un
immaginario fatto di forme indefinite, taglienti, sporche di sangue, rese
sinistre da sorrisi sadici e ombre che si allungano. Sono incubi materiali
plasmati dal buio e dall’ignoto che fungono da veicolo per il terrore.
Può
essere una visione limitata, o magari monca e priva delle sfaccettature legate
a una situazione perturbante, ma credo che sia anche, e soprattutto, quella
condizione più primitiva, che va a solleticare gli angoli più remoti della
coscienza e li manda in cortocircuito, scatenando visioni aberranti. Pur adorando
il genere nella sua interezza, da sempre preferisco un horror più fisico, legato
all’ingegno visivo e all’incredulità di una genesi mostruosa possibilmente
complessa, raffinata, sempre differente.
Io
amo i mostri, e ai mostri dedicherò nei prossimi mesi
parecchi articoli, inquadrando le migliori follie anatomiche che hanno
infestato il cinema horror nei suoi anni più fertili. Sarebbe naturalmente
superfluo chiacchierare ancora di behemoth leggendari che hanno sparso sangue e
carne umana nei vari La cosa, La mosca e Aliens, e dato che il materiale è tutto fuorché scarso trovo molto
più interessante girovagare nella mostrologia meno canonica e cominciare laddove
la storia spesso non ha modo di soffermarsi.
L’universo dei b-movie è molto più vasto e
pericoloso di quello che può sembrare, ma si può suddividere grosso modo in tre
categorie: quella dei film semplicemente brutti, quella dei film brutti ma
divertenti, e quella dei film onesti. La prima preferisco evitarla, la seconda
è da gustare rigorosamente in compagnia del signor Anime Asteroid Jacopo Mistè,
e la terza è tutta mia.
Allora partiamo.
Siamo nel 1983 e quello che Douglas McKeown
riesce a tirare fuori con 25.000 dollari di budget è ancora oggi abbastanza
incredibile. Se pensate che Raimi e compagnia sanguinaria hanno partorito La casa con poco più di trecentomila
dollari, già allora ritenuti un budget misero, fate un po’ il confronto.
Insomma, il buon McKeown firma sceneggiatura e regia di una piccola sciocchezza
assai divertente e dalla grande fantasia, ed è un peccato che The Deadly Spawn sia il suo solo e unico
contributo al cinema (viene da e ritornerà al teatro), perché è un esordio con molte frecce nel suo arco che
poteva essere capostipite di una discreta carriera di splatterate e carneficine
mostruose.
Abbiamo a che fare con un film modesto e
scricchiolante, è costruito su una base di deliziose cretinate e attori di ben
poca consistenza, ma è uno di quei lavori così piacevoli e di così fresca
lussuria mostruosa da non badare troppo alle scempiaggini, comunque parecchio
smussate e indolori, che lo riempiono. Parliamo di grossi vermoni caduti dallo
spazio e molto, molto affamati, ma che non mirano di certo a conquiste su larga
scala, né aspirano anche solo al dominio del paese più vicino: si accontentano
infatti di un seminterrato di una casa di campagna e iniziano a crescere.
È chiaro che l’elemento di prestigio di The Deadly Spawn sia proprio il lavoro
sulle creature, John Dods (che avrà un futuro di non troppo riconoscimento e
fortuna, sempre legato a produzioni abbastanza microscopiche) crea degli
squisiti incubi di gomma e cavi che ovviamente non possono sopravvivere alla
prova del tempo, ma non hanno perso un grammo di impatto visivo grazie alla
moltitudine di fauci, le centinaia di denti e il delirio di zampe e viscidume
di cui sono ricoperte.
Sarebbe sbagliato aspettarsi meraviglie tecniche
anche solo vagamente simili a quelle viste ne La cosa l’anno precedente, qui ci sono mezzi e proporzioni molto
più umili e ristretti, ma anche se i mostri appaiono sempre immobili e
inquadrati da davanti, sono talmente ingombranti e zeppi di bocche da reggere
comunque il gioco.
Questi deadly spawn nascono dal ventre
perennemente gravido di una madre aliena simile a un blob di corna, denti e
zampe da insetto. I girini sono invece delle piccole bestioline che sembrano un
incrocio tra una lumaca e un artiglio, i quali crescono rapidi e feroci,
spargendosi in tutta l’area infestata. Il nido viene costruito cadavere su
cadavere nel sotterraneo di una vecchia casa di campagna, mentre la famiglia
numerosa che vi abita trascorre ignara la propria giornata.
Ed è proprio sulla quotidianità di queste
persone che McKeown compone una narrazione lenta e abbastanza anomala, al di
fuori di qualsiasi schema legato a un film di mostri. Mamma e papà si svegliano
per fare una gita, i figli fanno colazione e si apprestano a studiare, gli zii che
soggiornano da loro chiacchierano del più e del meno, un elettricista è
chiamato a riparare un guasto, amici e fidanzate vengono a far visita.
The
Deadly Spawn è un susseguirsi
di sequenze pacate, talvolta spinte da una piacevole ironia, altre dal
contrapporsi della tematica che regna sovrana, incorniciata dal duello tra la
fantasia strabordante del piccolo protagonista e la ferrea disciplina
scientifica del fratello maggiore. È uno scontro sciocco soltanto in apparenza,
sembra impossibile eppure i dialoghi trovano un’insperata centratura e rendono
gli schieramenti più attenti e profondi del previsto (in particolare, è il
colloquio tra il bambino amante dei fumetti e lo psichiatra a regalare un paio
di ottimi scambi), mentre il resto del chiacchiericcio si assesta su situazioni
un po’ ripetitive e non sempre a fuoco, ma non per questo meno divertenti (il
massacro durante il pranzo è uno di questi momenti un poco idioti, improbabile
ma efficace).
In linea di massima è comunque il gore a
ricompattare il film ogni volta che McKeown sbanda, e pur con mezzi scarsi non
mancano amputazioni, sbranamenti, fontane di sangue e teste che esplodono. I
deadly spawn sono una forza della natura e non si fermano davanti a nulla,
mangiano, sciolgono, mutilano, mordono, masticano e partoriscono senza mai
stancarsi, in una festa di liquami e brandelli di carne. C’è una piacevole artigianalità
che dà soddisfazione e lascia più che appagati, per quanto rozza e a tratti
posticcia, e sembra strano che il film sia aperto e chiuso dalle due sequenze
più brutte e povere in quanto a effettistica (anche se l’epilogo, con un po’ di
immaginazione, è maestoso).
In compenso piace l’ingegno profuso per
affrontare i mostri, la bella colonna sonora carpenteriana e in generale la
gradevole simpatia dei protagonisti.
Nel 1990 una co-produzione italo-yankee inizia i preparativi per un sequel, Metamorphosis, ma i produttori storcono il naso e preferiscono modificare la storia a opera in corso per renderla stand alone, sia mai che il pubblico più raffinato si trovi un po’ spaesato non avendo visto il primo capitolo. Il risultato, come prevedibile, è parecchio sgradevole e involuto, uno di quei prodotti che era meglio non rispolverare e tenere in cantina, quindi teniamoci stretto The Deadly Spawn, una vecchia gemma raramente replicata negli anni a venire.
Nel 1990 una co-produzione italo-yankee inizia i preparativi per un sequel, Metamorphosis, ma i produttori storcono il naso e preferiscono modificare la storia a opera in corso per renderla stand alone, sia mai che il pubblico più raffinato si trovi un po’ spaesato non avendo visto il primo capitolo. Il risultato, come prevedibile, è parecchio sgradevole e involuto, uno di quei prodotti che era meglio non rispolverare e tenere in cantina, quindi teniamoci stretto The Deadly Spawn, una vecchia gemma raramente replicata negli anni a venire.
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