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Terminus (2015)

By Simone Corà | mercoledì 6 aprile 2016 | 00:01


Behold the alien god!                                                                                 


Nella fantascienza low budget l’oggetto alieno che cade dal cielo e combina cose è elemento molto ricorrente, in fondo a dover fare economia è input classico ma solido che permette discrete combinazioni di situazioni e caratteri a patto di avere un fine ben saldo e conscio di quello che può essere realizzato. 
Marc Furmie ce l’ha, o almeno questa è l’impressione, potrebbe essergli andata di culo ma ci sono due o tre cosette che in Terminus mostrano quell’attenzione che da queste parti si apprezza parecchio, tanto che il consolidato occhio chiuso per sorvolare sulle varie lacune si preme anche più volentieri nonostante le evidenti carenze. 

Dunque, cade questa cosa a metà tra una sonda spaziale e un polpo, e chi ci si avvicina guarisce da ogni malanno. La rigenerazione innescata dall’oggetto marziano va però ben oltre la semplice cura a cui i terrestri sono abituati, nei suoi paraggi miracolosi possono ricrescere dita, braccia e gambe amputate. E quindi quale miglior contesto per poter offrire un piatto di arti mutilati al messia alieno? 
La guerra inscenata in Terminus è quell’esempio di intelligenza nel mediare tra aspirazioni e reali mezzi a disposizione: nulla, di questo fumoso e incombente scontro nucleare tra Big, viene mostrato, tutto viene invece fatto fluire attraverso narrazioni esterne (telegiornali, reduci che borbottano, soldati che si lamentano, situazioni di protesta, dibattiti politici) utili a disegnare un background molto più stabile di quello a cui si può essere abituati con queste produzioni. 
Chiaro che, a non vedere nulla, il sospetto che il teatro non regga è comprensibile, ma con la complicità della sabbia e dello sporco delle periferie australiane Furmie è riuscito a dare quella minima tridimensionalità allo spicchio di scenario rappresentato, limitandosi in fondo a raccontare a distanza tutto quello che lo circonda proprio come se le informazioni piovessero addosso a un stronzo qualsiasi iniettandogli tensione, paranoia, paura e confusione. Anche perché, della guerra qui rappresentata, non si sa poi molto, è solo una pentola a pressione sull’orlo dell’esplosione, e basterebbe poco per distruggere il mondo intero. 

Qualcosa come un oggetto alieno, dotato di poteri misteriosi. 

Non è un caso, ci sono apparenti motivazioni stellari che tirano e cuciono fili, ma prima di averne anche solo una vaga idea David intuisce che, dietro questa tecnologia intergalattica, c’è qualcosa di più profondo, e che è giusto condividere quanto raccolto con Zach, che a sua volta passaparola a chi ha parecchio corpo in meno del suo e necessiterebbe di una buona ricrescita. 
Insomma, la voce inizia a circolare, ed è in questo crescendo di comprensione che Terminus dà il suo meglio: accogliere l’entità aliena, comprenderne pian piano le meccaniche, accettarne la potenza miracolosa, difenderla at all costs perché è giusto che questo elemento così prezioso sfugga al marciume del mondo. 
Abbiamo quindi a che fare con un incrocio di caratteri e di storie di vita faticosa, alcolismo, divorzi, figlie grandi che non credono al padre, intere vite donate all’esercito e poi dimenticate e accartocciate in un angolo: c’è molto qualunquismo e ordinarietà, i problemi sono quelli della società di periferia più ignorante e sofferente, ma la struttura è buona e le questioni sono affrontate con una dignità che è difficile trovare quando si parla di soldati e famiglie distrutte. L’odio, la rivalsa, il dolore e in generale il dispiacere per una vita sprecata emerge con molta forza, non ci sono infatti propagande o linearità di pensiero yankee, la situazione tragica non viene sfruttata per un tutti per uno da cui trabocchi patriottismo e pallottole, anzi, l’equazione sviluppata è un qualcosa tipo guerra/esercito/armi/patria=shit e già per questo è giusto apprezzare Terminus.



Sarebbe stato bello poter contare anche su una miglior combo artistica per padre e figlia: schiacciati dall’energia di Todd Lassance (che era il Caesar palestrato di Spartacus, come non volergli bene), che forse è vero motore del film e a cui ruota attorno la storia più interessante, non trasmettono con percentuale piena la difficile convivenza, ma lo spunto è mosso con un buon ritmo pacato e la suddivisione dei punti di vista permette una miglior generalità sulla vicenda, anche quando qualche dialogo scarsino fa la sua comparsa. 
Pochi fx, poco sense of wonder, Terminus è un film che piazza un elemento fantastico in uno scenario piuttosto credibile e avanza tenendo bene a mente questo concetto. Poteva essere più solido, più denso, meglio dialogato e recitato, con una visività che desse pienamente ragione all’uovo tentacolare alieno, ma anche così è una fantascienza curiosa e appassionante con più di una parolina o due da dire.

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