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The Invitation (2015)

By Simone Corà | martedì 10 maggio 2016 | 00:01

Invito a cena con delitto. E molte altre cose peggiori.                                           

Ci sono certe sensazioni che di solito emergono meglio, o che forse brillano con una spinta più naturale, in generi estranei all’horror: l’equivoco è uno dei motori principali della commedia, e l’imbarazzo che ne consegue è una delle valvole più infide con le quali e sulle quali ridere.
Ma l’imbarazzo che trasmette il comportamento onesto e ferreo di Will è qualcosa di molto particolare, si patteggia per lui eppure è difficile non sgranare gli occhi di fronte alla serie di momenti awkard di cui è vittima, si viene travolti da un disagio tremendo e che raramente ho visto così ben padroneggiato nei suoi toni e nei suoi saliscendi emotivi come fa Karyn Kusama.

Perché è facile sintonizzarsi su certe stazioni emotive riflessive di questo povero uomo, invitato a cena dalla ex moglie, con la quale condivide il dolore per la perdita, mai superata, di un figlio ancora in tenera età, e messo al centro di una progressione di stramberie che solo l’alcol riesce in qualche modo a camuffare ai presenti. Attorno al tavolo si raccolgono infatti vecchi amici ma, nonostante il legame che li allaccia, anche profondo in alcuni casi, tutti preferiscono rimanere comodi comodi su una superficialità inebriante tipica di questi momenti: se magna, se beve, si chiacchiera del più e del meno per passare una serata semplice e agevole, why not.
E così viene facile dimenticarsi presto che sono due anni che Eden, dopo il divorzio da Will, ha fatto perdere le tracce per riapparire ora con un nuovo compagno e una lunga permanenza in Messico da raccontare. Viene facile dimenticarsi di due invitati del tutto estranei alla cerchia di amici, anche per età e interessi, nonostante ci si accorga distanti un chilometro che sono due weirdo da tenere d’occhio. Viene facile dimenticarsi dell’inquietante filmato dove si assiste alla morte assistita di una donna, viene facile dimenticarsi anche di un loro amico che ha accumulato un ritardo preoccupante e non pare dare segni di vita al telefono.

L’unico a tenere duro, a credere fermamente a solo quello che vede e sente, a rimanere fermo sulle sue opinioni e su ciò che sta fiutando, senza farsi influenzare dal pensiero altrui e dalle rassicurazioni che rimbalzano durante la serata, è proprio Will, che non ha mai paura, per tutta la durata della pellicola, di esprimere la propria opinione anche se sgradevole, contraria alla massa e in certi momenti quasi fuori luogo.
Ne subisce le spese parecchie volte, in un preciso momento offre una reazione che colpisce cuore e stomaco con un pianto liberatorio e disperato che comunica molto, molto di più di quello che sta realmente succedendo a lui e agli altri, ma non perde mai il controllo e pestando i piedi riesce a mantenere quella lucidità che gli altri gettano via dopo pochi minuti.
È un malessere sfruttato per amplificare lo strato di tensione: ogni gesto, ogni occhiata, ogni parola sussurrata, ogni rumore risuonano molto più forte del normale e costringono a rizzare le antenne per ricercare una qualsiasi spiegazione o un minimo di razionalità a quello che sta succedendo.


Ma The Invitation non è solo film di inquietudine sublime e raffinata messa in scena, sepolto più a fondo nelle viscere, nel groviglio di nervosismo e agitazione tuona una riflessione, anche filosofica, sulla perdita e sul dolore, cementando per una volta il tanto amato trauma cinematografico che sostiene molta cinematografia horror e dandogli una struttura potente, terremotante e tragica.
Cosa si è disposti a fare per chiudere una ferita? Fino a che punto ci si può spingere per annullare la sofferenza che urla in fondo al cuore? Quali mezzi sono permessi per raggiungere, o ritrovare, quella felicità che pare non essere più concessa?
La chiesa a cui aderiscono Eden e David parte da questi temi per sostenere una meditazione e una serie di modelli di pensiero per estirpare il dolore come fosse un cancro, unendo quindi parte psicologica a una concretezza semplice, decisa ed efficace, e ponendo interrogativi sulla gestione di un lutto e sulla libertà di vivere.

Karyn Kusama ha una lunga e strana storia cinematografica alle spalle, fa parte di quel circolo di autori promettenti frantumati però dalla grande industria, che schiaccia qualsiasi aspirazione per riciclare e vendere prodotti preconfezionati.
Aeon Flux e Jennifer’s Body non sono grandi biglietti da visita, le lunghe pause tra un progetto e l’altro e un presente pare dedicato alla tv neanche, e quindi i quindici anni che separano Girlfight e The Invitation sono parecchio pesanti, ma è piacevole ritrovarlo in un cinema più povero e lontano dai grandi riflettori, caro a quei modelli fatti di dialoghi di ferro (ma anche Phil Hay e Matt Manfredi si barcamenano tra blockbuster disastrosi e indie più validi) sostenuti da bravi attori (Logan Marshall-Green è un sosia di Tom Hardy che ha dell’incredibile, persino timbro vocale roco e sguardo pieno ed espressivo sono identici), dove pare sì non succedere niente, solo che si tratta di un niente ricchissimo, profondo e sofisticato che trova nell’esplosione finale una grande catarsi liberatoria.   

2 commenti:

  1. Ho visto il film, finito da appena 5 minuti e... che dire, di una potenza incredibile, un crescendo fino al finale bellissimo/traumatico.

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