Invito a cena con delitto. E molte altre cose
peggiori.
Ci sono certe
sensazioni che di solito emergono meglio, o che forse brillano con una spinta
più naturale, in generi estranei all’horror: l’equivoco è uno dei motori
principali della commedia, e l’imbarazzo che ne consegue è una delle valvole
più infide con le quali e sulle quali ridere.
Ma l’imbarazzo
che trasmette il comportamento onesto e ferreo di Will è qualcosa di molto
particolare, si patteggia per lui eppure è difficile non sgranare gli occhi di
fronte alla serie di momenti awkard di cui è vittima, si viene travolti da un
disagio tremendo e che raramente ho visto così ben padroneggiato nei suoi toni
e nei suoi saliscendi emotivi come fa Karyn Kusama.
Perché è facile
sintonizzarsi su certe stazioni emotive riflessive di questo povero uomo,
invitato a cena dalla ex moglie, con la quale condivide il dolore per la
perdita, mai superata, di un figlio ancora in tenera età, e messo al centro di
una progressione di stramberie che solo l’alcol riesce in qualche modo a
camuffare ai presenti. Attorno al tavolo si raccolgono infatti vecchi amici ma,
nonostante il legame che li allaccia, anche profondo in alcuni casi, tutti
preferiscono rimanere comodi comodi su una superficialità inebriante tipica di
questi momenti: se magna, se beve, si chiacchiera del più e del meno per
passare una serata semplice e agevole, why not.
E così viene
facile dimenticarsi presto che sono due anni che Eden, dopo il divorzio da Will,
ha fatto perdere le tracce per riapparire ora con un nuovo compagno e una lunga
permanenza in Messico da raccontare. Viene facile dimenticarsi di due invitati
del tutto estranei alla cerchia di amici, anche per età e interessi, nonostante
ci si accorga distanti un chilometro che sono due weirdo da tenere d’occhio.
Viene facile dimenticarsi dell’inquietante filmato dove si assiste alla morte
assistita di una donna, viene facile dimenticarsi anche di un loro amico che ha
accumulato un ritardo preoccupante e non pare dare segni di vita al telefono.
L’unico a tenere
duro, a credere fermamente a solo quello che vede e sente, a rimanere fermo
sulle sue opinioni e su ciò che sta fiutando, senza farsi influenzare dal
pensiero altrui e dalle rassicurazioni che rimbalzano durante la serata, è
proprio Will, che non ha mai paura, per tutta la durata della pellicola, di
esprimere la propria opinione anche se sgradevole, contraria alla massa e in
certi momenti quasi fuori luogo.
Ne subisce le
spese parecchie volte, in un preciso momento offre una reazione che colpisce
cuore e stomaco con un pianto liberatorio e disperato che comunica molto, molto
di più di quello che sta realmente succedendo a lui e agli altri, ma non perde
mai il controllo e pestando i piedi riesce a mantenere quella lucidità che gli
altri gettano via dopo pochi minuti.
È un malessere
sfruttato per amplificare lo strato di tensione: ogni gesto, ogni occhiata,
ogni parola sussurrata, ogni rumore risuonano molto più forte del normale e
costringono a rizzare le antenne per ricercare una qualsiasi spiegazione o un
minimo di razionalità a quello che sta succedendo.
Ma The Invitation non è solo film di
inquietudine sublime e raffinata messa in scena, sepolto più a fondo nelle
viscere, nel groviglio di nervosismo e agitazione tuona una riflessione, anche
filosofica, sulla perdita e sul dolore, cementando per una volta il tanto amato
trauma cinematografico che sostiene molta cinematografia horror e dandogli una
struttura potente, terremotante e tragica.
Cosa si è
disposti a fare per chiudere una ferita? Fino a che punto ci si può spingere
per annullare la sofferenza che urla in fondo al cuore? Quali mezzi sono
permessi per raggiungere, o ritrovare, quella felicità che pare non essere più
concessa?
La chiesa a cui
aderiscono Eden e David parte da questi temi per sostenere una meditazione e
una serie di modelli di pensiero per estirpare il dolore come fosse un cancro,
unendo quindi parte psicologica a una concretezza semplice, decisa ed efficace,
e ponendo interrogativi sulla gestione di un lutto e sulla libertà di vivere.
Karyn Kusama ha
una lunga e strana storia cinematografica alle spalle, fa parte di quel circolo
di autori promettenti frantumati però dalla grande industria, che schiaccia
qualsiasi aspirazione per riciclare e vendere prodotti preconfezionati.
Aeon Flux
e Jennifer’s Body non sono grandi
biglietti da visita, le lunghe pause tra un progetto e l’altro e un presente
pare dedicato alla tv neanche, e quindi i quindici anni che separano Girlfight e The Invitation sono parecchio pesanti, ma è piacevole ritrovarlo in
un cinema più povero e lontano dai grandi riflettori, caro a quei modelli fatti
di dialoghi di ferro (ma anche Phil Hay e Matt Manfredi si barcamenano tra
blockbuster disastrosi e indie più validi) sostenuti da bravi attori (Logan Marshall-Green è un sosia di Tom Hardy che ha dell’incredibile, persino timbro
vocale roco e sguardo pieno ed espressivo sono identici), dove pare sì non
succedere niente, solo che si tratta di un niente ricchissimo, profondo e
sofisticato che trova nell’esplosione finale una grande catarsi liberatoria.
Ho visto il film, finito da appena 5 minuti e... che dire, di una potenza incredibile, un crescendo fino al finale bellissimo/traumatico.
RispondiEliminaEh sì, ti lascia impotente e spossato :)
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