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Polednice (The Noonday Witch) (2016)

By Simone Corà | venerdì 17 novembre 2017 | 00:01

Dalla Repubblica Ceca, un horror rurale che profuma di campagne e incubi. Con un pizzico di The Babadook                                                           

Polednice
, o The Noonday Witch, si basa su un poema tradizionale locale e sulla maledizione che infligge la cosiddetta strega di mezzogiorno, una storia paragonabile ai nostrani racconti fiabeschi di uomini neri e lupi cattivi che rapiscono i bambini di notte, ma a conoscere in maniera più approfondita questa vicenda c’è il rischio di rovinarsi la squisitezza narrativa imbastita da Jiri Sadek, al suo esordio, su una sceneggiatura di Michal Samir, che vanno a indagare su un bel folklore ancestrale e pagano.  
La vicenda è quella di una madre, Eliska, che torna nel paese natale assieme alla figlia, Anetka. Seppur accolta con calore dagli abitanti della comunità, che la aiutano con il trasloco e i lavori in casa, la situazione è molto fragile, compromessa da una serie di rapporti che man mano sgretolano la facciata serena che sembrava essere stata eretta. La mina vagante è la moglie del sindaco, una donna ormai mentalmente instabile che conosce e profetizza avvenimenti orribili. E quando le stranezze cominciano a concretizzarsi, la paura non è da meno.
Polednice non appartiene a quella categoria di film dominata dall’apparenza gentile dei compaesani che si trasforma gradualmente in ostilità e contrasto, anche se qui i vicini di Eliska sono realmente interessati al suo benessere e si fanno in quattro per aiutarla, seppur permanga sempre quell’alone indefinibile e di dubbia autenticità. L’orrore nasce invece in un luogo imprecisato e corre su quella linea a cavallo tra turbe mentale e manifestazione soprannaturale, Polednice è pertanto un film molto sottile e ambiguo che non si sbilancia mai e preferisce nascondere con grande intelligenza i propri intenti dietro un quadro molto semplice e pulito.
Il paragone con The Babadook diventa inevitabile, a partire dal rapporto turbolento tra Anetka ed Eliska, con le conseguenti difficoltà di quest’ultima ad accettare l’astio che prova la piccola nei suoi confronti. Viene meno il forte impatto simbolico, se il film di Jennifer Kent era una metafora elegante che proprio in virtù della stessa viveva di una potenza senza paragoni, Polednice è sfuggente e misterioso e funziona sia in un’interpretazione psicologica che in una più squisitamente horror.

Ma se di solito una narrazione lenta impreziosisce un film di questo tipo, convogliando la mente di chi guarda verso dettagli e stratificazioni, qui abbiamo a che fare con un ritmo davvero molto rallentato e liquefatto, con eventi così diluiti da risultare spesso impalpabili. I paesani con le loro storie personali, l’ambiguità che trasuda da ognuno di loro, i segreti che emergono piano senza mai trasformarsi in rivelazioni da incubo sono sì perfetti tasselli con cui costruire gradualmente il mosaico, ma è facile smarrirsi tra i racconti, le dicerie, le bevute e il calmo inserimento di Eliska nella comunità.
Se succede poco è perché succede poco nella realtà quotidiana della campagna in cui si svolge la vicenda. Si beve, si mangia, si dorme, si suda (siamo in estate e c’è un problema all’impianto idrico che nega l’acqua a quasi tutto il paese), la calma estiva e gli ambienti rurali vengono disegnati da una meravigliosa, caldissima fotografia e viene naturale farsi avvolgere da questo clima torrido dove si annaspa nell’attesa della frescura serale o di una sorsata di birra gelida. 
Gli stessi eventi legati alla leggenda sono scarsamente accennati, tanto che solo nel finale si può pienamente comprendere il meccanismo e lasciarsi percorrere da un brivido, il resto è un gioco di chiacchiere tra vicini, dove si parla molto e si vede poco, con un concetto cardine nascosto bene in fondo, per chi sa scavare meglio e con più pazienza. È un peccato? No, è una scelta ben precisa, e un modo di fare cinema a cui non siamo forse abituati. Polednice può essere quindi pesante (lo è), e in un certo senso potrebbe non ripagare della fatica spesa (mmmh, un po’ sì), ma è un lavoro raffinato e signorile, curato da una mano davvero deliziosa. Per me vale la pena.

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