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Without Name (2016)

By Simone Corà | martedì 28 novembre 2017 | 11:08

Un film di ossessioni cosmiche ed emicranee da dopo sbronza. Con parecchi funghi allucinogeni                                                    
 
Irlanda sempre più al centro della scena horror europea e mondiale: dopo The Hallow e A Dark Song, un nuovo esempio di cinema elegante, dal gusto rurale e ben lontano dalla facile archiviazione. Qui siamo su territori molto personali, Without Name è un disturbate horror psicologico che forse non avrà l'impatto e la consistenza dei due titoli precedenti, ma che non scherza in quanto ad aggressività e assalto visivo. La storia è quella di un ricercatore universitario sull'orlo della distruzione: un matrimonio che non funziona, un'amante giovanissima che non comprende realmente, un lavoro che forse non apprezza, e la solitudine di un incarico, quello di misurare e raccogliere dati di una zona di un bosco, che gli sta sfasciando lentamente il cervello. Abbiamo quindi un film dove, come forse si può intuire, realtà e incubo si sovrappongono creando uno strato incomprensibile e di totale smarrimento, scaraventando più volte ogni cosa in un inferno lynchano dove la sequenza temporale è scardinata e si viene sommersi da visioni paralizzanti.
In apparenza allora un’opera inaccessibile di follia e sulla follia, una di quelle scatole cinesi che forse lasciano più spaesati che meravigliati, ma in realtà è un esperimento molto composto, attento e ben strutturato, che non necessita del sacrificio di chi guarda per una ingresso anche solo contestuale a ciò che accade. Without Name è infatti, prima di tutto, un vero e proprio trip lisergico che Lorcan Finnegan, alla sua prima regia su lunga distanza, non teme di caricare (a base di funghi allucinogeni) con lunghe sequenze di luci stroboscopiche che fanno uscire gli occhi dal cranio (di certo non aiuta averlo visto a colazione, ma l’horror lo si vive ventiquattr’ore su ventiquattro), e questo trasmette uno straniamento lisergico che colpisce molto più a fondo di una più morbida destrutturazione sensoriale.

La progressiva distruzione dello sgradevole Eric è molto più umana e in qualche modo molto più comprensibile di quello che può apparire dopo i primi sconquassamenti visivi/sonori, e va grande merito a Finnegan per riuscire a mantenere intatta l'atmosfera genuinamente horror partorita dalla natura inspiegabile e dall'entità cosmica che pare dominarla, attraverso una regia splendida, una narrazione lenta e silenziosa, priva di colonna sonora se non per alcune nauseanti litanie rumoriste, e una vicenda fatta di immagini e di sensazioni che fanno provare quel dolore sottopelle tipico della febbre. Da provare.
 

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