Di quando
Leatherface era un adolescente ignaro del suo futuro. Un film di macchine,
fucilate e motoseghe
Sappiamo tutti quanto sia affondato il franchise della motosega texana con la mole di sequel, prequel e remake che nessuno aveva chiesto. Va sempre così, in fondo, non serve neanche stupirsi. Tra film scopiazzati e banali tentativi di rivitalizzare la saga, spurgando ancora sangue da quella bottega di carne umana che forse avrebbero dovuto chiudere una volta per tutte nel lontano 1986, arriva però un prequel che si è fatto commentare forse più per la presenza dei due macellai francesi Bustillo e Maury alla regia che per l’indagine sulla gioventù di Leatherface, di cui il film prende il titolo.
Un po’ a sorpresa
ci si scontra quindi con un lavoro che poco o nulla ha a che vedere con la
lunga saga alle sue spalle: niente gruppo di adolescenti/banali innocenti a
finire nel posto sbagliato al momento sbagliato, e niente lento svelarsi di un
inferno di carne rancida e turbe mentali, bensì un film sporco e malsano che si
prefigge allo stesso tempo di spezzare un’andatura sempre più zoppicante con
una sorta di indiavolato road movie, e di ripristinare le atmosfere sudice dei
primi due capitoli. Un prodotto che però, nonostante la mole sovrumana di
sangue sparso e arti spappolati, alla fine si rivela molto più composto e
trattenuto di quanto poteva sembrare – mediocrità che non è sfuggita alla
Lionsgate, che infatti ha imprigionato il film in un limbo per un paio d’anni,
probabilmente perché incapace di trovarne un target adeguato, prima di
liberarlo per un semplice direct to video in America (anche se da noi è uscito
dritto al cinema).
Bustillo e Maury
vanno a inquadrare una breve porzione dell’adolescenza di Leatherface, evitando
lunghi approfondimenti o mediocri spiegazioni, ma concentrandosi invece su una
realtà psichiatrica dove un gruppo di utenti innesca una fuga e provoca un
disastro dietro l’altro. L’aspetto migliore di questo approccio è il mantenere
segreta l’identità di Leatherface, rimescolando irruenze comportamentali e
silenzi psicopatici in modo da non poter mai affermare con sicurezza chi, tra i
fuggitivi, possa diventare in futuro il vecchio Faccia di Cuoio. Non che sia
così difficile venire a capo del mistero, ma è una buona intuizione che quanto
meno regala uno slancio e una longevità altrimenti scarsini, anche perché i
personaggi, modellati su una manciata di cliché forse poco interessanti, hanno
una loro dignità e riescono a vagabondare con un discreto livello di
pericolosità.
Il resto è una
gradevole carneficina che non risparmia nessuno, anzi, è proprio nella tempesta
di viscere e carni maciullate che il film trova la sua vera dimensione, e forse
non era così importante soffermarsi su ambienti e modalità diversi prima di
divertirsi con fucili, coltelli e motosega. Resta sempre insoluta questa
volontà di giustificare il male e incanalarlo forzatamente in una spiegazione
che non dovrebbe interessare a nessuno, quando il piacere di molto cinema
horror consiste proprio nell’inspiegabilità delle sue manifestazioni, che siano
queste soprannaturali o più concrete come il modus operandi di Faccia di Cuoio,
ma nel barile dei film inutili bisogna dire che Leatherface ha quanto meno il decoro di rispolverare il marciume
originario molto meglio della valanga di sequel. E solo per questo, andrebbe
visto.
Se fosse stato un film stand alone, per me avrebbe avuto un peso diverso e sarebbe stato apprezzato di più.
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