Quando le droghe possono fare molto, molto male
Sebbene il 2015 abbia grondato horror con
abbondanza, qualche periodo di magra duranti i setacci e le razzie in rete più
feroci porta a galla pietruzze preziose che un po’ si ignorano e un po’ si
evitano per la già citata eccedenza di materia prima, che prosciuga tempo e
risorse.
Magari alla sua uscita The Facility ha riscosso anche un
proprio successo, impossibile per me ricordarlo perché nel 2012 non avevo
ancora così a cuore la scena horror, e il blog stesso non aveva una direzione
precisa se non quella di una generica settorialità legata alle produzioni di
genere.
Ma anche con qualche anno sul groppone,
l’esordio di Ian Clark ha molte, molte cose da dire su certe tematiche zombie
ed è parecchio più valido e innovativo rispetto a tanti stanchi colleghi che
continuano tuttora a figliare abomini.
La scelta di trattare l’infezione virale
di rabbia fino alla fine come una vera e propria malattia è già aspetto enorme,
e permette a Clark di sorvolare su certe superficialità con cui sarebbe stato
possibile liquidare alla svelta l’argomento base e partire con la bloodbath
ignorante.
Non che il bagno di sangue non ci sia,
anzi, la produzione dilapida una buona quantità di sangue seppur non si arrivi
mai a soluzioni più gore o viscerali: dietro al make up c’è intelligenza e
attenzione, Clark preferisce non esagerare perché in fondo non ce n’è motivo,
il suo è un film ben pensato e possiede una rotondità che ne sviluppa con cura
ogni elemento.
È principalmente per questo che
l’argomento virale trova terreno ideale in cui crescere, e anche con uno spunto
derivativo c’è possibilità di inatteso progresso: con otto persone qualunque
rinchiuse in un istituto per due settimane per essere cavie di un nuovo farmaco
non è poi così complesso immaginare cosa possa succedere e cosa vada storto, ma
a partire dalle caratterizzazioni di ogni singolo personaggio The Facility affronta l’epidemia prima
con la testa e poi con i bastoni.
Ci sono motivi ben precisi dietro alle
scelte di ciascuna cavia, ci sono personalità che emergono basandosi sui
caratteri classici ma anche chi sembra tagliato più ruvidamente è in realtà
presentato con quei dettagli che lo levigano bene come spesso accade in certo horror
british: è così che il palestrato con la passera come unico pensiero si offre a
una rappresentazione negativa diversa dal consueto ragazzo pompato e stupido, e
stessa cosa succede con l’esile timidezza del protagonista, o con la
giornalista che ha accesso a informazioni che gli altri non hanno, o ancora al
tossico e alla sua lingua lunga.
Ne nascono interazioni e relazioni
anomale, si costruiscono bugie che vengono poi distrutte in segmenti e
minutaggi diversi dal solito, e anche nella lista dei decessi appaiono sorprese
perché i nomi vengono spuntati con un ordine altrettanto irregolare.
E con questa base sarebbe sbagliato
semplificare troppo la vicenda perché, quando il farmaco viene ingerito e
inizia a produrre i suoi effetti rabbiosi, non c’è solo furia cieca e morsi a
profusione nell’inevitabile royal rumble che si viene a creare, bensì un
piacevole contrastare dei sintomi, respinti a base di sonniferi per ritardarli
il più possibile.
Poi, chiaro, l’ira prende il sopravvento
(anche fisico, causa mutazioni e rigonfiamenti orribili) e costringe gli otto a
darsi battaglia per sopravvivere, ma ancora Clark rielabora e in qualche modo
rinvigorisce il genere, sostituendo le sequenze d’azione ordinarie con momenti
insoliti d’assedio e alcune visività di grande impatto: la scena delle porte
bloccate e soprattutto la fuga dalla stanza con le luci spente fanno stringere
i denti e mandano più di un sussulto al cuore.
È pur sempre una piccola produzione
europea di un autore all’esordio, e non ci sono grossi appigli per uscire dai
macroschemi, ma sarebbe ingiusto richiedere qualcosa di diverso da quanto è
offerto. E con un finale così cattivo non ci si può lamentare, se non del lungo
tempo che Clark sta impiegando per fare un secondo film.
Questo me lo ricordo. E ricordo che mi aveva messo l'ansia a tremila, soprattutto in una certa scena che descrivi anche tu.
RispondiEliminaMi erano piaciuti anche i personaggi e anche il modo non tradizionale di farli interagire. Pur in una situazione piuttosto tipica, il film diventava imprevedibile.
Poi io sono molto sensibile allo schema: mettiamo un gruppo di sconosciuti in un determinato luogo e vediamo che succede. È un tipo di narrazione che, se ben condotta, porta sempre a delle riflessioni non banali.
I personaggi sono la parte migliore, il loro fare e parlare è molto più profondo e intelligente di quello che in media si può trovare in film simili. E l'assedio, sì, anche per me ha un fascino incredibile :)
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