Torniamo in Corea del Sud ad ammazzare zombie con il prequel di Train to Busan
Che abbia a che fare con drammi umani o cadaveri
resuscitati, e che sia alle prese con persone in carne e ossa o semplici
disegni, di una cosa Sang-ho Yeon è ormai professionista consolidato: creare
personaggi.
Con Train to Busan il canonico assalto zombie aveva trionfato sbaragliando i tanti,
troppi rivali degli ultimi anni, e ciò era stato possibile per mezzo di un
pugno di eroi qualunque assemblati con una spaventosa accuratezza di dettagli
quotidiani: la normalità permetteva un più realistico approccio all’orrore e una
conseguente reazione a esso veritiera e profonda. Con Seoul Station la situazione è la stessa: una qualsiasi orda di
morti viventi e un manipolo di personaggi meravigliosi che si ritrovano loro
malgrado ad affrontarli.
Ma se nel film precedente Yeon subiva il fascino
di un package più robusto in quanto a mezzi e fondi, spingendo sull’azione,
sulle botte e sull’ironia ficcante tipica da blockbuster, con Seoul Station ritrova l’intimità e
l’impatto sociale dei suoi primi due lavori, come se solo attraverso
l’animazione la delicatezza di alcuni argomenti potesse emergere con maggior
violenza.
Niente più treno, niente più ambienti
claustrofobici, niente più corse forsennate: in questo prequel l’azione si
sposta nelle zone più povere della città e come protagonisti strappa dalle
strade una giovane prostituta scappata di casa, il suo ragazzo fannullone che
la sfrutta per pallide rapine, un padre deciso a ritrovarla e un barbone
disperato e senza futuro. Siamo nei quartieri della stazione, luogo dove
scoppia l’epidemia, e per molto tempo Yeon si concentra sull’ordinarietà della
suburbia, filmando poliziotti alle prese con piccole situazioni criminali,
litigi negli edifici più fatiscenti, scoppi di rabbia da parte di chi ha perso
tutto.
È una quotidianità scomoda e infelice, ma Yeon
riesce a filtrarne il malessere e il disagio modellando delle bellissime figure
verso le quali è subito facile empatizzare. La ragazza ingenua sopraffatta
dalla presenza maschile ma che sotto sotto pesta i piedi e cerca di ribellarsi,
il fidanzato approfittatore ma così patetico da apparire in qualche modo dolce
e simpatico, il padre risoluto che protegge il ragazzo pur di trovare la
figlia, e il clochard che avanza quasi per inerzia tra urla e lacrime vedendo
sgretolarsi la poca sicurezza di cui disponeva.
Era il lavoro più complesso da fare e Yeon ne
esce a testa alta, perché il pregio maggiore del film sta tutto qui, ed è un
pregio così notevole e raffinato da impreziosire tutto il resto.
Su un piano squisitamente horror Seoul Station ha un impatto molto meno
forte rispetto al predecessore, abbiamo a che fare con situazioni più nella
norma e che non sorprendono più di tanto. Gli stessi zombie perdono i movimenti
dinoccolati e gli schiocchi alle ossa che ne avevano quantomeno levigato la
figura in Train to Busan,
conformandosi a una classicissima massa di cadaveri ambulanti. Vengono anche meno
il sangue e le circostanze ansiose, e la carenza di animazioni destinate agli
zombie, spesso mossi con una brutta CG, appiattisce il loro incedere
sanguinario.
Ma ciò non è necessariamente un male, perché Yeon
non cade dalle nuvole e sa bene cosa serva. Non mancano infatti splendide scene
di stupore orrorifico, soprattutto nella prima metà, quando gli zombie appaiono
ancora in numeri contenuti: l’assalto nell’appartamento o la carica nella
stazione di polizia sono momenti di grande costruzione atmosferica capaci di
rilasciare un orrore genuino e piacevole nonostante l’argomento ormai
vivisezionato in tutti i modi possibili.
La spinta iniziale purtroppo perde molta energia
durante lo sviluppo, gli attacchi degli zombie si fanno fin troppo
convenzionali e buona parte del film si riassume in gruppi di sopravvissuti
asserragliati dietro barricate. La stessa forza narrativa inciampa in qualche
occasione (il colloquio fin troppo calmo con la polizia in tenuta
antisommossa), e in generale sembra che Yeon si trovi più in panne nel momento
in cui la crisi si espande e inizia a coinvolgere un maggior numero di persone.
Quando tutto ritorna su binari più scarni e
lineari Seoul Station riprende a
correre e sferra un cazzotto micidiale nella lunga parte conclusiva, dove il
vero cinema di Yeon, quello più aspro e crudele, prende nuovamente forma e
sembra in qualche maniera ricollegarlo agli esordi dopo la parentesi in live
action. È un epilogo amaro e sofferente, privo di quella triste dolcezza che
aveva arricchito il capitolo precedente, che cala spietato e improvviso come a
sottolineare la ruvida difficoltà e la mancanza di appigli di chi è meno
fortunato.
Credo non ci si potesse aspettare di più da un
film che è stato comunque sempre presentato come il fratellino minore di Train to Busan: un prodotto discreto,
sincero, gradevolmente disegnato e animato, seppur siano lontanissimi gli
standard anche solo di un anime medio giapponese. Ma non mi dispiacerebbe un
terzo capitolo.
Diciamo che viene un po' meno l'impostazione action e da film grosso, rimane su cose più intime e personali. :)
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