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Seoul Station (2016)

By Simone Corà | martedì 7 marzo 2017 | 00:01

Torniamo in Corea del Sud ad ammazzare zombie con il prequel di Train to Busan                                                       

Che abbia a che fare con drammi umani o cadaveri resuscitati, e che sia alle prese con persone in carne e ossa o semplici disegni, di una cosa Sang-ho Yeon è ormai professionista consolidato: creare personaggi.
Con Train to Busan il canonico assalto zombie aveva trionfato sbaragliando i tanti, troppi rivali degli ultimi anni, e ciò era stato possibile per mezzo di un pugno di eroi qualunque assemblati con una spaventosa accuratezza di dettagli quotidiani: la normalità permetteva un più realistico approccio all’orrore e una conseguente reazione a esso veritiera e profonda. Con Seoul Station la situazione è la stessa: una qualsiasi orda di morti viventi e un manipolo di personaggi meravigliosi che si ritrovano loro malgrado ad affrontarli.
Ma se nel film precedente Yeon subiva il fascino di un package più robusto in quanto a mezzi e fondi, spingendo sull’azione, sulle botte e sull’ironia ficcante tipica da blockbuster, con Seoul Station ritrova l’intimità e l’impatto sociale dei suoi primi due lavori, come se solo attraverso l’animazione la delicatezza di alcuni argomenti potesse emergere con maggior violenza.

Niente più treno, niente più ambienti claustrofobici, niente più corse forsennate: in questo prequel l’azione si sposta nelle zone più povere della città e come protagonisti strappa dalle strade una giovane prostituta scappata di casa, il suo ragazzo fannullone che la sfrutta per pallide rapine, un padre deciso a ritrovarla e un barbone disperato e senza futuro. Siamo nei quartieri della stazione, luogo dove scoppia l’epidemia, e per molto tempo Yeon si concentra sull’ordinarietà della suburbia, filmando poliziotti alle prese con piccole situazioni criminali, litigi negli edifici più fatiscenti, scoppi di rabbia da parte di chi ha perso tutto.
È una quotidianità scomoda e infelice, ma Yeon riesce a filtrarne il malessere e il disagio modellando delle bellissime figure verso le quali è subito facile empatizzare. La ragazza ingenua sopraffatta dalla presenza maschile ma che sotto sotto pesta i piedi e cerca di ribellarsi, il fidanzato approfittatore ma così patetico da apparire in qualche modo dolce e simpatico, il padre risoluto che protegge il ragazzo pur di trovare la figlia, e il clochard che avanza quasi per inerzia tra urla e lacrime vedendo sgretolarsi la poca sicurezza di cui disponeva.
Era il lavoro più complesso da fare e Yeon ne esce a testa alta, perché il pregio maggiore del film sta tutto qui, ed è un pregio così notevole e raffinato da impreziosire tutto il resto.


Su un piano squisitamente horror Seoul Station ha un impatto molto meno forte rispetto al predecessore, abbiamo a che fare con situazioni più nella norma e che non sorprendono più di tanto. Gli stessi zombie perdono i movimenti dinoccolati e gli schiocchi alle ossa che ne avevano quantomeno levigato la figura in Train to Busan, conformandosi a una classicissima massa di cadaveri ambulanti. Vengono anche meno il sangue e le circostanze ansiose, e la carenza di animazioni destinate agli zombie, spesso mossi con una brutta CG, appiattisce il loro incedere sanguinario.
Ma ciò non è necessariamente un male, perché Yeon non cade dalle nuvole e sa bene cosa serva. Non mancano infatti splendide scene di stupore orrorifico, soprattutto nella prima metà, quando gli zombie appaiono ancora in numeri contenuti: l’assalto nell’appartamento o la carica nella stazione di polizia sono momenti di grande costruzione atmosferica capaci di rilasciare un orrore genuino e piacevole nonostante l’argomento ormai vivisezionato in tutti i modi possibili.
La spinta iniziale purtroppo perde molta energia durante lo sviluppo, gli attacchi degli zombie si fanno fin troppo convenzionali e buona parte del film si riassume in gruppi di sopravvissuti asserragliati dietro barricate. La stessa forza narrativa inciampa in qualche occasione (il colloquio fin troppo calmo con la polizia in tenuta antisommossa), e in generale sembra che Yeon si trovi più in panne nel momento in cui la crisi si espande e inizia a coinvolgere un maggior numero di persone.
Quando tutto ritorna su binari più scarni e lineari Seoul Station riprende a correre e sferra un cazzotto micidiale nella lunga parte conclusiva, dove il vero cinema di Yeon, quello più aspro e crudele, prende nuovamente forma e sembra in qualche maniera ricollegarlo agli esordi dopo la parentesi in live action. È un epilogo amaro e sofferente, privo di quella triste dolcezza che aveva arricchito il capitolo precedente, che cala spietato e improvviso come a sottolineare la ruvida difficoltà e la mancanza di appigli di chi è meno fortunato. 

Credo non ci si potesse aspettare di più da un film che è stato comunque sempre presentato come il fratellino minore di Train to Busan: un prodotto discreto, sincero, gradevolmente disegnato e animato, seppur siano lontanissimi gli standard anche solo di un anime medio giapponese. Ma non mi dispiacerebbe un terzo capitolo.

1 commenti:

  1. Diciamo che viene un po' meno l'impostazione action e da film grosso, rimane su cose più intime e personali. :)

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