Uno slasher sbucato dal 1984,
spolverate il videoregistratore e riavvolgete il nastro
L’onda nostalgica sembra parecchio
distante dallo spegnersi, continua imperterrita con i suoi synth sfibranti e il
suo look consunto a mescolare nel sangue la bava di certo pubblico: si tiene in
alto l’operazione recupero anni Ottanta e la si spinge il più possibile, non ci
si vergogna e si guarda al proprio prodotto come fosse l’unico, il più bello,
il più nuovo, il più originale, come se tutta la scena attorno non esistesse,
dritti e imperterriti verso la prossima moda.
Anche a sforzarsi di essere il più
positivo e docile possibile (lo sono sempre, eh, mi rubate con un gelato al
solero), la scena non pullula di visioni intelligenti come quella di un David
Robert Mitchell, con It follows si
sfonda una porta antica e massiccia e si prepara una strada tutta nuova che
tutti dovrebbero seguire, e quindi nel mucchio dei ricordi colorati degli anni
Ottanta le belle intuizioni (Maniac,
Manborg, Cold in July, il recentissimo
Stung) vengono stritolate dalla facilità demenziale su cui è più facile
scivolare e imbastire qualcosa, e quel Kung Fury a trainare il carrozzone è, sì, divertente e okay tutto quello che
volete, ma è brutto, brutto esempio di cosa invece potrebbe nascere da questo
nuovo modello di fare cinema.
Lost After Dark, per esempio, che a conti fatti non è un vero e proprio
prototipo da santificare, ma ha qualche cosa nella sua (furba, per carità)
realizzazione che mi porta a preferirlo di gran lunga (e non che ci voglia
molto) a, che so, l’ennesimo film di zombi che ripete abusatissimi schemi ma
cerca anche di essere ricco e profondo come il pessimo Extinction dimenticandosi della necessaria chiave entertainment
che, in queste produzioni di ripetizione di concetti stravecchi (e l’accoppiata Sy-Fy/Asylum sanno bene di cosa parlo
con il loro clamoroso Z Nation), è
vitale.
A parlare di anni Ottanta è difficile
scappare dallo slasher, e Ian Kessler in fondo gioca comodo nell’omaggio, era
la scelta più ovvia, oltre che pregna di ogni possibile esempio da fiutare e
seguire. Sarebbe ormai tempo che con simili possibilità, con la marea di
cazzate su cui dovrebbe essere matematico camminare sopra, le cose davvero
difficili diventassero lo sbaglio, l’errore, il cliché, l’ingenuità, ma okay,
non si può pretendere pulizia e brillantezza, e forse sarà sbagliato limitarsi
ad accontentarsi ma, pur con molte valutazioni che dovevano essere diverse,
oltre che ponderate con più maturità, Lost
After Dark è un piacevole ossigeno con cui riempire i polmoni.
Tolto quindi l’ossequio a un’era indimenticabile
con cui è facile farsi chiacchierare, tolte le sciocchezze con cui giocare sul
filo del serio e dell’ironia (la parte di pellicola mancante, dài, davvero,
ancora?) e le rodriguezate ormai fuori tempo massimo (immagine rovinata, errori
di montaggio, giochetti con il sangue sullo schermo), quello su cui gioca bene
Kessler è far piombare il suo film nel pieno degli anni Ottanta con quelli che
sembrano i mezzi degli anni Ottanta.
Sì, vero, Kessler non salta molto in alto
e per di più atterra anche su un materasso bello comodo, però ci sarebbe stata
una puzza ben peggiore se questi mezzi fossero stati sfruttati per una risata,
per una strizzata d’occhio, per una scena cool e moderna in un contesto che è
invece preso sul serio, pur con una giusta serenità e un mezzo sorriso sul
volto che, diciamocelo, ci vuole per poter lavorare su un simile progetto.
Lost
After Dark sembra sbucare direttamente dal 1984 in cui è ambientato,
con tutti i crismi e le lacune che era lecito aspettarsi dal cinema di genere
trent’anni fa: un gruppo di adolescenti al ballo scolastico, una scappatella
per sbaciucchiamenti soft e hard (ma mai troppo hard, eh), una cabin in the
woods dove perdersi e un lercio bestione dedito a passatempi sanguinari, ovvero
gli elementi base di uno slasher d’annata che non cerca e non propone novità,
si limita a fare benino la sua mattanza e dove può limita qualche spigolo anche
con una certa classe.
Il bello di questo sapore polveroso è la
mancanza della febbre adolescenziale odierna, i protagonisti sono costruiti con
quella semplicità scarna e in qualche modo dolce della gioventù cinematografica
proposta in passato, non ci sono strilli, bestemmie e cacofonie alcoliche, quindi
non dispiace avere per protagonista una classica bambolina timida che non ha
mai passato prima la notte fuori casa, o avere per snodo centrale un amore puro
e cheesy come non si vede da anni: se la contestualizzazione è studiata, o
almeno dà l’impressione di esserlo, il gioco è fatto e i personaggi si muovono
da soli attorno al bulletto e alla sua bionda dal poco cervello, al quaterback
dal cuore d’oro, al ragazzo di colore che spara battute, alla rocker e al
paffutello che insegue vano l’amore dei suoi sogni.
Sono caratteri costruiti per avere un
ruolo e non per essere mera carne marcia da fa penzolare al chiodo, è
situazione molto importante e fa sorridere che a ricordarlo sia un film come
questo, quando nello stesso periodo esce un’immondizia moderna come Charlie’s Farm, che dello slasher prende
solo ed esclusivamente gli ingredienti più piccanti e colorati (le morti e il
super gore) per darli senza alcuna aggiunta di intelligenza e dialoghi al
pubblico più insipido possibile.
Se quindi si prepara bene il terreno, si
può anche accettare che il treno rallenti qualche volta di troppo, visto che
comunque Kessler butta carbone e aggiungere quei dettagli che colpiscono quando
serve, sono passaggi gradevoli e ben inseriti come la tenera simpatia di quello
che invece dovrebbe essere l’outsider del gruppo, la serie di sfighe sceme che bastonano
la cumpa ma subito ben spiegate e rese possibili da una combo di dialoghi
sempre ficcanti (l’autobus rubato, la benzina finita, ecc) o l’ironia cucita
sulla bocca di alcuni di loro in momenti di perfetto tempismo (e quel
“cannonball-cannibal” vale un’intera generazione, sicuramente anche oggi
brillantissimo) impreziosiscono un body count anomalo e del tutto fuori di
testa, con una successione nelle uscite dal campo di gioco che infrange bene o
male tutti gli stereotipi possibili e si muove su coordinate e tempistiche
bizzarre.
E qui se la spassa parecchio il villain di
turno, che non ha granché da farsi ricordare o da trasmettere al genere, è solo
un vecchio pazzo pieno di oggetti pericolosi ma il suo compito lo sa fare bene
amputando, sbudellando e schiacciando con una certa insistenza questi poveri
sfigatelli: il gore è buono, poteva essere più alto ma abbonda quanto basta, e
il sangue sprizza bello grumoso.
Peccato allora per lo spreco rivolto a
Robert Patrick, per quanto ben inquadrato il suo preside è il personaggio di
gran lunga peggiore e dimenticabile di tutto il carrozzone, poteva nascere una
bella sfida tra giganti quanto scatta la rabbia verso il mostro cannibale, ma
il segno che lascia è troppo, troppo superficiale, e suona meglio accettarne
malvolentieri la presenza che cercare di giustificarla in qualche modo.
Non so davvero a chi possa servire ancora
questa scelta stilistica (sempre di quello si tratta, il contenuto ehm non è
materia per questi nostri eroi), o meglio, a chi possa essere d’aiuto nel trovare
direzione in una scena che, comunque, da un paio d’anni è più ricca di quanto
si possa pregare, nell’esultare per il ritorno degli anni Ottanta viventi io mi
sono esaltato e stancato un secondo dopo (ma tornerò a esaltarmi per Turbo Kid,
già lo so), magari altri no, meglio per loro, vivranno di più e più felici, ma
quello che rimane sono sempre certe idee o quei particolari che possano
solleticare: l’horror più piccolo vive anche di queste micro frattaglie e se è
giusto illuminarne le più gonfie e succulente un piatto al macellaio di fiducia
spetta anche a Lost After Dark.
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