Dalla mente di un comico, un horror teso come pochi. Con una potente analisi del razzismo e dei suoi derivati
Jordan Peele è un comico e non c’è un momento, nonostante
l’aspetto posato e inquietante di Get Out,
in cui cerchi di nascondere, o anche solo camuffare, la sua vera natura. La
spalla del protagonista è una calamita umana di ironia tragicomica, un trionfo
di battute sceme, rabbia sboccata e ragionamenti limitati che si ritorcono sempre
su sé stessi. È un aspetto spiazzante del film, soprattutto in una scena ben
precisa, ed è pertanto meraviglioso scoprire la versatilità di alcuni autori,
perché Peele non solo scrive e dirige uno degli horror giustamente più
chiacchierati del momento, ma è riuscito a scansare la trappola della facile
farcitura umoristica per favorire una storia seria e rigorosa che forse non era
così facile aspettarsi.
Come sempre accade in queste occasioni, le
enormi aspettative vengono inevitabilmente ridimensionate durante la visione, e
bisogna dire che in questa pur ottima prima metà del 2017 manca ancora quel
prodotto che possa staccarsi mettendo tutti d’accordo, un po’ come successo
negli anni scorsi per It follows e The VVitch. Ma sebbene approccino la
materia con metodi lontanissimi tra loro, il discorso è simile a quello
affrontato per The Void, e la realtà dei
fatti è in fondo così piacevole che nonostante certi limiti, forse anche
involontariamente autoimpostiti, Get Out
è un ottimo contributo alla causa e addirittura un bel richiamo a certe
esplorazioni del fantastico che si spingono gradevolmente oltre a quello che
possa aver prodotto la Blumhouse in tempi recenti.
Forse non serve nemmeno dire che Get Out è un horror sociale, è uno di
quegli aspetti spinti dalla promozione che arrivano ben prima del film stesso,
con tutto il loro carico di interrogativi. E a visione conclusa è forse facile
realizzare che questo studio del razzismo è così marcato e imponente che
potrebbe svalutare la potenza della pellicola, ma qui siamo in Italia e può
essere magari semplice analizzare una piaga che negli States non ha modo di
essere curata.
Comportamenti barbari, ignoranza e negazione del
problema sono vere e proprie prese di posizioni ahimè universali, e se si vuole
incentivare una discussione spesso può essere preferibile un approccio molto
più basilare, un abc che rinfreschi le idee e riporti un po’ di attenzione. Quindi
non mi dispiace che il modo in cui Peele insiste sull’argomento sia, nell’economia
strettamente di genere del suo lavoro, anche così esagerata, perché è nella
continua provocazione che può trasmettere una sincerità e una personalità utili
a catturare il pubblico più distratto, sollevando un facile polverone,
piuttosto che limitarsi a un’audience più ristretta e meticolosa che, sì, possa
annuire alla questione trattata e riconoscere il valore del film, senza però
rientrare in un obiettivo sociale indiscutibile.
Non so bene come pormi, il film mi è piaciuto
molto ed è indubbio che Peele abbia svolto un buon lavoro di costruzione
psicologica e ansiosa ma, dal momento in cui l’afroamericano Chris conosce la
famiglia della bianchissima fidanzata Rose, non c’è un secondo in cui la
questione razziale non venga marcata, rimarcata, evidenziata, calcata,
ripetuta, ribadita, confermata, rinforzata, sbattuta in faccia con un’evidenza
che un altro autore avrebbe probabilmente potuto tradurre in una noiosa e
banale constatazione dei fatti, ma va detto che Peele struttura un bel gioco di
tensione secondo i crismi essenziali del cinema horror.
Sguardi sospetti, comportamenti incomprensibili,
discorsi che lasciano presagire realtà ben più terribili di quelle mostrate
sono le armi necessarie per un’essenziale approccio colmo di disagio alla
società chiusa che prende di mira l’estraneo con cui viene in contatto. Ogni
cosa rispetta il meccanismo della paranoia con una notevole progressione di
ansie e volute incongruenze, ma se si poteva essere più sottili, diluendo il
rapido addentrarsi nella mitologia razzista descritta, in fondo credo che
questa scelta non comprometta eccessivamente l’immersione nella vicenda per due
motivi.
Il primo è uno più semplice ma non meno
importante, e riguarda in buona parte il bravissimo Daniel Kaluuya che da solo
guida il film con la sua riservatezza e il suo ingoiare il veleno sparso
nell’aria, spargendo occhiate perplesse ma rimanendo composto, educato,
corretto, accumulando strati su strati di rabbia implosiva. Get Out è il suo show ma Kaluuya non ne
è leader totalitario, il suo personaggio (o meglio, la sua interpretazione) non
affronta il male perché non ne uscirebbe vincitore, lo schiva, ci passa
attraverso, se lo lascia scivolare addosso. È raro vedere un approccio così
contenuto a un tale ammasso di innocente quanto superba cattiveria.
Il secondo punto è il vero obiettivo a cui forse
mira Peele, e cioè il tremendo perbenismo borghese, che qui raggiunge
dimensioni galattiche. La leggerezza dei toni e la vaporosità delle parole
usati dai tanti personaggi incontrati da Chris sono un aspro specchio dell’inettitudine
umana, e credo faccia più male il modo in cui la questione razziale viene da
loro fuggita rispetto alla gravità del simbolismo stesso che edifica il film. È
il non rendersi conto di ferire quello che accoltella, squarcia e lascia
esanimi, e l’odissea di Chris è forse fatta più di badilate in faccia che di
scoperte vere e proprie.
È difficile aggiungere qualcosa perché basta
pochissimo per rivelare accenni che rovinerebbero la sorpresa. Che non è grande
cosa, per carità, ma Peele ha condotto il film lungo una discreta traiettoria di
ossessioni e alienazione, e non era facile mantenere una compostezza (sociale e
non) con questa scelta narrativa. Lo aiuta un cast ben calato in uno scenario
così scomodo, Allison Williams è trasparente e rassicurante nella giusta
misura, mentre Catherine Keener e Bradley Withford somministrano piccole dosi
di candida malizia senza mai dare troppo nell’occhio. Dispiace solo per un
Caleb Landry Jones a malapena sfruttato, ingabbiato com’è in un personaggio
grossomodo inutile, che avrebbe invece potuto contribuire alla stravaganza
della pellicola.
Il cinema horror (così come la comicità, non
dimentichiamo la provenienza di Peele) è da sempre veicolo di un messaggio più
profondo, ma è anche vero che un concetto, per distruggere tutto, andrebbe suggerito,
insinuato sottopelle. Peele invece entra a gamba tesa e, be’, ha i suoi motivi
per farlo, io sto con lui e spero che Get
Out continui a riscuotere il successo che sta meritando. Andate a vederlo.
questo film lo voglio vedere, al più presto lo farò ^_^
RispondiEliminaCorri finché resiste al cinema, difficile che sopravviva anche alla programmaione della settimana prossima. :)
Eliminaecco che arriva anche l'ospite della loggia nera di Twin Peaks, questo film presto lo vedrò oaic ad newrA
RispondiElimina!otnoc iC
EliminaSono estremamente curioso di vederlo
RispondiEliminaCorri a vederlo al cinema prima che lo tolgano, temo non resisterà ancora a lungo (anche se si può già reperire per altre vie) :)
EliminaEsatto. E' un buon film, che come sempre rimane schiacciato dal boato pubblicitario, ma ciò non toglie nulla a quello che esprime. Di sicuro in America avrò un peso ben diverso, rispetto ai nostri occhi.
RispondiEliminaIl film funziona benissimo, e con qualche piccola aggiustatura avrebbe potuto essere quasi perfetto! Il grande successo americano dimostra che Get Out sa parlare davvero al suo pubblico... un gran bell'esordio!
RispondiEliminaMa infatti, è importante che un film piccolo come questo abbia avuto una simile risposta. Sono questi gli horror che devono diventare commerciali e raggiungere il grande pubblico, non le merdate tutte uguali che hanno distrutto la scena negli ultimi anni. :)
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