Mai fidarsi dei glory hole. Mai.
L’entità aliena che porta ispirazione è
argomento ormai privo di segreti o intriganti approfondimenti, che un qualche
tipo di artista scenda a patti con un demone è un’idea che di questi tempi può
trovare carburante solo attraverso rappresentazioni particolari o messe in
scena che travestano il patto faustiano da qualcosa di innovativo, moderno,
soprattutto fresco.
A colpire devono essere motivazioni
diverse dal solito, intuizioni visive che lascino un segno: non è il cercare
un’originalità perché l’originalità stessa non è tappa fondamentale
dell’horror, soprattutto in queste fasce così povere e lontane dalla massa,
dev’essere l’espressione del carattere horror a imprimersi e a dare valore a
film di così timide potenzialità da avere bassissime longevità.
E credo che Michael Medaglia, con Deep Dark, abbia
imboccato una strada giusta, dà all’ennesimo Faust un accento barkeriano e si
porta a casa una pellicola fatta pressoché di nulla.
Comprime la durata in poco più di settanta
minuti, limita gli attori a una manciata e in ruoli abbastanza canonici e
semplici da impersonare, scivola in qualche pozzanghera ma evita la caduta con
qualche battuta indovinata, e in generale colora bene la simpatia del povero
Hermann, scultore fallito e di nessuna speranza, che insegue un sogno che non
può in alcun modo raggiungere perché ancora non si rende conto di essere
pessimo oltre ogni limite.
Sgraziato, maldestro, insicuro, senza
idee, dell’arte Hermann comprende poco e non ha alcun futuro davanti,
disoccupato, cacciato di casa dalla madre, deriso dagli altri artisti
frequentati, trova ultima speranza nell’isolamento di una casa lercia e
affittata di fortuna. A questi ben noti elementi di un certo modello di
comicità horror, quella che si diverte scoprendo i lati più deboli dei loser o
ribaltandoli eroicamente in battaglie epiche, la trama principale aggiunge
poco, ma in fondo non serve più di un rivale che gli piscia addosso e di un
amore da inseguire: Medaglia mette sul fuoco l’essenziale e alla fine cucina
facile una storia lineare e priva di sorprese ma che strappa più di un sorriso
per mezzo di dialoghi ficcanti, caratteri contrastati con mestiere e qualche
piccola trovata visiva da incorniciare (le descrizioni che appaiono in sovraimpressione,
come nomi di quadri, nei momenti più importanti e/o deludenti della vita di
Hermann).
Il succo lo si trova però nella gestione
dell’elemento soprannaturale, e penso che in film sul livello
economico/distributivo di Deep Dark
sia bene o male valore fondamentale con cui soppesare la pellicola. Non che il
resto passi in secondo piano ma è chiaro che, a setacciare torrenti alla
ricerca della pietruzza più sporca e nascosta, ciò che premia e soddisfa di più
in un horror come questo è, appunto, l’horror, e Medaglia gioca bene la sua
carta tappezzando progressivamente il tugurio affittato da Hermann di glory
hole viscidi e muffosi. Da questi fori, spinti da una voce suadente femminile,
escono oggetti altrettanto disgustosi, ricoperti di patine unte e sostanze
fangose, che Hermann, colpito dall’ispirazione soprannaturale, sfrutta per
costruire statue che lo portano da un momento all’altro a cavalcare un successo
insperato.
Non importa quindi la prevedibilità della
storia, con il rapporto tra entità e Hermann che va presto a rotoli,
trasformato in un’improbabile storia d’amore (il cui culmine è ovviamente
quello che pensate tutti voi) dove la gelosia da una parte e l’arroganza
dall’altra traboccano distruggendo ogni cosa: Deep Dark funziona perché l’entità stessa è realizzata con un’ispirazione
squattrinata di gusto davvero sopraffino. Misteriosa fino alla fine, mossa da
motivazioni e meccanismi a noi sconosciuti, carnivora e violentissima
all’occorrenza, strizza l’occhio a un certo senso cosmico lovecraftiano
nell’aderire a regole fisiche inspiegabili (pare esistere dentro le mura, poi
sembra essere le mura stesse, può essere ferita e in alcune occasioni sparge
grosse quantità di sangue come il più grosso dei mostri pur senza avere forma
fisica), e vomita ed espelle queste carnosità nauseanti con echi di Cronenberg
e Barker senza far mai perdere la marcia ironica e in fondo stemperata del
film.
Che rimane minuscolo e di poche pretese, è
vero, è un film di mediocre fattura e mediocri ispirazioni, non punta a nulla
se non a un piccolo timbro nella scena horror del valore che può avere un buon racconto
di un esordiente, in grado di funzionare per lo spunto soprannaturale e per la
sua, viste le basi, miracolosa amministrazione.
E non avrà quindi la potenza e la firma
che lascerà un tris uscito da pochi giorni e già nella top ten di fine anno (Howl, Bone Tomahawke e The Hallow, devo sbrigarmi a scrivere di tutti e tre prima che me ne
dimentichi), ma ha una sua dignità e sono felice di averlo visto e soprattutto
averne scritto.
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