Un film di gente che si fa le canne. Però
horror.
A quanto pare non ci sono solo Seth Rogen e Evan
Goldberg a seguire la via del cinema più fumato, Danny Perez prova a
intrufolarsi tra erba e alcol con un progetto abbastanza strampalato e sorretto
da una delle idee più bizzarre mai uscite della scena horror (che, okay, non si
può dire sennò è spoiler brutto e cattivo).
Pur partendo da basi ormai poco accattivanti
come quella della maternità satanica, la gravidanza inattesa di Lou rimbalza tra
menefreghismi e muri di liquore in maniera anche abbastanza avvincente, con uno
spettro ironico che enfatizza i momenti più strambi.
Non siamo però ai livelli di una vera e propria
commedia, dove si sa come viene trattato certo intrattenimento: Antibirth invece affronta l’argomento
con una serietà maggiore, schiaffa i suoi personaggi in una suburbia sporca e
congelata dall’inverno, e tra un bicchiere e una sigaretta non mancano una
manciata di punte introspettive anche di una certa intensità.
Natasha Lyonne è perfetta nei panni trasandati
di Lou, e buona parte del film funziona proprio grazie alla testardaggine con
cui allontana ogni aiuto: sicura delle proprie convinzioni, distrugge la
propria vita giorno per giorno tracannando birra, anche quando diventa chiaro
che qualcosa sta crescendo dietro di lei.
Il gruppo di tossici che le si raccoglie intorno
è solo in grado solo di sfruttarla, ne usano il corpo, la casa, i soldi, il
tempo e persino l’amicizia, ma Lou è sempre a testa alta e sa che l’unica a cui
può affidarsi per portare avanti la gravidanza è lei stessa. Solo l’incontro
con Lorna aiuta Lou ad aprirsi un po’, e la sequenza del dialogo in auto riesce
anche a essere commovente.
Gli scampoli ironici sono sbuffi improvvisi e
parecchio weird, distendono la drammaticità dei temi e creano un’atmosfera più
leggera e piacevole da digerire: le battute con cui Lou demolisce il mondo
attorno a lei sono sempre ficcanti e precise, e a dire il vero spezzano il
ritmo quando il film tende ad ammosciarsi.
Tra viaggi onirici e molleggiamenti
psichedelici, Perez incappa in più di una lungaggine, e in una sorta di
ripetitività sta il difetto maggiore del film, che si accartoccia, si ferma e
riparte per poi accartocciarsi di nuovo proponendo schemi e motivazioni molto
simili. Dei 94 minuti totali almeno 15 potevano venire scartati in favore di un
maggior dinamismo e un ritmo più pimpante, perché dopo la prima mezzora Antibirth non sembra perseguire, o forse
non è in grado di proporre, soluzioni alternative al modello rabbia-birra-fumo-battuta-sogno
onirico.
Non sono un fan della psichedelica e delle
visioni allucinogene, a loro modo qui sono ben fatte con un boato di colori e
personaggi che grondano simpatico disagio e malessere, ma un paio di momenti
surreali in meno avrebbero aiutato il film laddove non spinge come potrebbe: le
tentazioni body-horror e la breve parte finale.
Ci sono molti momenti utili a capire che la
gravidanza di Lou non è normale, e allo spettatore vengono forniti anche a
inizio film per mezzo dell’amante-schiava dello spacciatore (una ragazza dal
corpo splendido ma con volto deforme e un grugno da orco), ma Perez preferisce
avvicinarsi a piccole dosi per poi bastonare a lungo con scene di incredibile
intensità gore.
La pelle che si stacca dal collo e il
mega-bubbone nel piede sono momenti mica da ridere che, considerando anche il
tono scanzonato del film, arrivano come ginocchiate sul naso, pura violenza
visiva, estremamente efficace. Peccato che Perez non li sfrutti, annegandoli in
una nebbia di fumo e deliri alcolici, come se non volesse rivelare la vera
natura del suo film o se temesse di perdere parte del suo pubblico.
E infatti la rivelazione arriva solo negli
ultimi cinque minuti, ed è un’incessante esplosione di liquami, sangue e
frattaglie, un vero e proprio assalto gore dove tutti gli elementi horror e
sci-fi vengono espulsi con una forza impressionante. Poco tempo, quasi uno
spreco, Antibirth cambia faccia e
impazzisce ma non sembra esserci neanche il tempo di godersi questa monumentale
scarica di brutalità, perché il climax che inseguiva Perez non si costruisce su
novanta minuti di niente e cinque di follia ultrasanguinaria, bensì su un
graduale crescendo con cui preparare il terreno (un po’ come succedeva
nell’ottimo We are still here).
Poteva essere un b-movie da incorniciare, invece
è solo un film di gente che si fa le canne e che all’improvviso
sblaaargh-spurrk-sbreeergh! Ecco. Però carino. E insomma, bisogna segnarsi
anche questo regista per vedere se riesce a calibrare la macchina da presa.
Magari con una canna in meno, o in più, a seconda di come viene meglio
l’ispirazione
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