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Recensione: Mare di Bering, di Tullio Avoledo

By Simone Corà | lunedì 19 marzo 2012 | 08:00

Einaudi, 2004
400 pagine, 12,50 euro

Bissare il successo di critica e pubblico de L’elenco telefonico di Atlantide non era cosa di certo facile, e infatti Tullio Avoledo, con questo secondo romanzo, fa molta fatica a stare dietro alle invenzioni brillanti e irresistibili che hanno reso la sua opera prima un punto fisso della fantascienza italiana.

Mare di Bering, prima di tutto, non è facilmente inquadrabile nel genere di cui Avoledo è forse il più conosciuto esponente tricolore, perché l’ucronia che fa da sfondo alle avventure di Mika e compari fatica parecchio a uscire dalle pagine e a rendersi tassello realmente importante della storia, proprio perché la storia parla di tutt’altro, un tutt’altro sicuramente strampalato come da tradizione avolediana, ma comunque fedelmente ancorato a una realtà tutto sommato possibile. E se da sempre Avoledo gioca con questo binomio, inserendo elementi fantascientifici in cronache di quotidiana e agrodolce drammaticità, con Mare di Bering le porzioni degli ingredienti in gioco sono ahimè mal dosate, creando a tratti qualcosa di difficilmente digeribile.

Si sbatte addosso a troppe, troppe, troppe cose, e nelle parti iniziali e conclusive diventa arduo leggere con costanza e scioltezza data la frammentarietà strutturale. Se nella parte centrale la storia scorre a meraviglia, con il consueto stile dell’autore friulano che mescola ironia e una certa prosa accurata e poetica, addentrarsi nella vicenda è decisamente ostico a causa di una serie di elementi eccessivamente lontani tra loro e che si congiungono dopo troppe pagine.

Abbiamo infatti a che fare con: un ragazzo che per campare scrive tesi a pagamento, un suo collega colto ma trasandato, una coppia di criminali, un barbiere a cui piace fare a pugni, una ragazza che forse ha tradito il suo lui, uno sfigato dottorando che finge di essere un professore, una pittrice incapace, una misteriosa appassionata d’arte, un ragazzo disabile e un nastro con incisa la sua storia, un padre che fugge dalla moglie e molto altro ancora, in un mosaico complessivo che, dopo essersi composto con esagerata lentezza, non è in grado di svelarsi in una conclusione veramente adeguata.

Vengono infatti a crearsi due vicende parallele ben distinte, entrambe con protagonisti gli stessi personaggi ma che risultano pesanti e inverosimili proprio perché trattate simultaneamente: se infatti Avoledo avesse scartato tutto ciò che riguarda il povero Daniele, non solo il ritmo del romanzo ne avrebbe giovato, rendendolo molto più svelto all’inizio e molto più credibile in certi scambi tra Mika e la sua ragazza, ma nel complesso la storia principale sarebbe rimasta maggiormente impressa, adoperando gli spazi di cui aveva bisogno senza per forza condividerli con una seconda trama per certi versi inverosimile e posticcia. Ne consegue una parte conclusiva praticamente didascalica, dove vengono tirati i nodi dei mille fili intrecciati senza che ci sia mai una forza, un mordente che sostenga quanto accade.

Inoltre, la gestione dei personaggi è spesso sbilanciata e poco chiara, spuntano infatti molti nomi, tra gli amici di Mika e di Rabo, di cui vengono riportati frasi o azioni ma che in realtà non hanno alcun ruolo, cosa che comporta una minore attenzione verso certi protagonisti (su tutto il rapporto tra Rabo e Silver, che spunta fuori di colpo). Resta comunque una bellissima parte centrale, dove la trama agisce a senso unico e si viene rapiti dalle difficoltà amorose e lavorative di Mika in un susseguirsi di eventi rocamboleschi e tragicomici nei quali si respira la grande abilità di Avoledo di far ridere e far riflettere nello stesso momento.

2 commenti:

  1. Io adoro Avoledo a prescindere da tutto, ma questo è il suo romanzo meno riuscito.

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  2. Me ne manca ancora qualcuno da leggere, tra tutti l'ultimo su Metro 2033, ma per adesso la penso proprio come te. :)

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