Avete ottenuto la vostra vendetta, il bad
guy è morto e giustizia è fatta. Ma poi?
È facile vedere la vendetta personale come
atteggiamento protofascista, meno semplice è venderla proprio per sgravare un
prodotto da complicazioni politiche e morali che rischiano, se mal dosate o
gratuite, di rovinare della sana soddisfazione fisica ed etica che, a volte,
non è male e non è sbagliato incontrare e provare al cinema. Per fare qualche
nome, c’è chi c’è riuscito (Park Chan-Wook), chi se n’è fregato (Pierre Morel
con il suo schiacciasassi Taken), e chi, come Jeremy Saulnier, si è
interrogato su altre questioni che, di solito, il cinema di genere tende, a
volte anche giustamente, a sottilizzare.
A meno di non essere un poliziotto o di
possedere comunque un qualche tipo di preparazione, e per quanto la rabbia per
il male subito possa essere devastante e compressa in una bolla che rischia di
esplodere da un momento all’altro, fare il giustiziere non dev’essere cosa per
tutti. Senza implicare tanta filosofia spiccia e falso moralismo nell’essere
migliori dell’altro e di non abbassarsi ai suoi livelli, l’uccidere può essere
solo incrocio di reazioni nucleari che non si possono, non si possono
descrivere, e il Dwight di Macom Blair è un esempio sorprendentemente credibile
di cosa comporti il mettersi in testa un simile pensiero e volerlo portare sino
in fondo.
Dwight è un medioman come tanti altri, non
è sposato, non ha figli, Saulnier suggerisce anche che a più di quarant’anni
viva ancora con i genitori, dopo la morte violenta degli stessi si è esiliato trasformando
la sua macchina in una casa e vivendo di stenti fino a quando non scopre che il
loro assassino è uscito di prigione. Il pensiero è immediato, addirittura
meccanico, ucciderlo è l’unica cosa che può dare senso alla sua attuale e
misera esistenza. Ma non si può essere killer da un giorno all’altro, e Dwight
è una spugna che assorbe tutte le possibili complicazioni che la mancanza di
una mente fredda comporta: l’adrenalina lo porta a non preparare piani e a fare
tutto d’istinto, l’agitazione lo obbliga a errori e a rischiare grosso in
moltissime occasioni, e in generale l’ingenuità, ma è l’ingenuità di una
persona normale, fa sì che la sua
vendetta sia un continuo sbaglio, verso se stesso e chi gli sta vicino.
La bellezza di Blue Ruin sta proprio nel non gonfiare la buffa innocenza di Dwight,
e il film, per quanto colmo di momenti ironici, non appare come una versione
più leggera di una storia di vendetta, né una sorta di ibrido tra noir e
commedia come va di moda fare nell’horror, o un qualche tipo di black humor con
schizzi pulp. Anzi, qui siamo di fronte a parentesi nichiliste, squarci di
violenza terremotante e lunghe sequenze di silenzio interiore che non
permettono mai alla goffaggine di Dwight di prevalere, facendo scordare di cosa
stia in realtà parlando Saulnier. La catastrofe che mette in moto ha
conseguenze che chiunque, nella sua posizione, non è in grado di calcolare,
sono troppi i sentimenti e le emozioni in gioco per essere abbastanza lucidi e
perfettamente geometrici. Non è quindi più una questione di giusto o sbagliato,
non ci sono dubbi che sia sbagliato
soprattutto perché questo tipo di sbaglio può scatenare reazioni ben peggiori.
L’infrazione in casa di sua sorella
scampata per un pelo, le ferite subite e curate con altrettanta fortuna, le
armi recuperate per enormi coincidenze sono solo alcuni dei problemi
giganteschi affrontati da Dwight in seguito alle sue azioni tanto spontanee
quanto incerte, ed è un miracolo che sparatorie e area d’azione rimangano entro
certi limiti e non coinvolgano molto altro, ennesimo favorevole volere di un
destino che sembra soccorrere Dwight solo per poi divertirsi facendogli stupidi
dispetti.
E per mettere in scena tanto rigore nel
non-rigore vendicativo di un protagonista memorabile, Saulnier è caloroso e
glaciale allo stesso tempo grazie a una narrazione che non spiega, non spiega
mai, neanche con qualche sviolinata o minuscoli riassunti, ciò che sta
accadendo: tutto è mostrato con una raffinatezza esemplare che trasforma il
disastro di Dwight in una frattura che si allarga un poco alla volta,
aggiungendo di minuto in minuto, con dialoghi deliziosi e sguardi colmi di
significato, informazioni necessarie a capire da cosa sia stata creata.
Bellissimo infine il supporto musicale, trattenuto
ed essenziale, con quel No Regrets che parte a metà film e dona alla
stramba, dolente vicenda di Dwight un amaro sapore nostalgico.
altro titolo che mi segno all'istante....
RispondiEliminaPerò guai se questo non ti piace, eh ;)
Eliminavisto lo scorso anno al Torino Film Festival, mi era piaciuto parecchio...
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