Dalla vera storia di un innocente condannato a morte, una vendetta sovrannaturale senza esclusione di colpi
Siamo in Texas, agli inizi degli anni Ottanta.
Johnny Frank Garrett è un diciassettenne con gravissimi problemi mentali e una
lunga storia di abusi alle spalle, ma ciò non basta per farne un quadro più
preciso davanti a una giuria che ha già deciso la sua colpevolezza. Il ragazzo
è accusato di aver stuprato e ucciso una suora di 76 anni e, sebbene le prove
siano tutt’altro che schiaccianti, viene condannato a morte. A nulla serve addirittura
l’intervento di Giovanni Paolo II, a Garrett viene somministrata l’iniezione
letale all’età di 28 anni, dopo una plateale frase di congedo divenuta
parecchio famosa (“I'd like to thank my family for
loving me and taking care of me. And the rest of the world can kiss my ass”). Johnny Frank Garrett: un vero badass.
Sull’innocenza di Garrett viene già realizzato The Last Word, un documentario del 2008
dove si districano i più discutibili nodi giudiziari del caso e si cerca di far
luce su ciò che può essere realmente accaduto. Non l’ho visto, ha avuto una
distribuzione limitata, magari lo recupero prima o poi. Ma se, purtroppo,
simili storie accadono spesso e i documentari d’inchiesta con cui smascherare
gli orrori del tribunale nascono di conseguenza (per esempio il bellissimo e
disumano Making a Murderer), a sopravvivere
alla storia è in realtà la presunta maledizione lanciata da Garrett stesso, in
una lettera dove avrebbe promesso la morte a chi lo aveva giudicato.
In questi casi siamo sempre sul limite tra racconto
e gossip macabro, diciamo che le coincidenze danno una bella spinta alla
leggenda perché molte delle persone coinvolte in un modo o nell’altro nella sua
condanna muoiono in circostanze spesso impreviste e con una casualità che ha
dell’incredibile, tra cadute fatali, colpi d’arma da fuoco incidentali e una
lunga serie di tumori che non lasciano scampo.
Sembra la trama di un banale b-movie sbucato
dagli anni Ottanta, e in tutta sincerità trovo strano che nessuno abbia
sfruttato l’anatema di Garrett per farne un filmaccio truculento. Bisogna
aspettare il 2016 e un regista, Simon Rumley, che in realtà parrebbe troppo
sofisticato per questo tipo di storia: The
Living and the Dead, Red White &
Blue e il segmento Bitch di Little Deaths sono martellate sulle
gengive che si faticano a dimenticare, una carriera che sembra quindi stridere
con la bassa elementarità della vendetta del povero Garrett. Alla sceneggiatura
troviamo Ben Ketai, che da qualche anno sta promuovendo un piacevole
intrattenimento horror di seconda fascia, e soprattutto Marc Haimes, che ha
scritto Kubo e la spada magica. Mi
piace la trasversalità di certi autori, soprattutto se ai primi lavori, è un
abbattimento di barriere che non può che fare bene alla scena horror.
E infatti il mix funziona in maniera
strepitosa. Rumley sradica la componente prettamente sovrannaturale e abbandona
Garrett in uno stato di semplice, malvagia accessorietà, rendendolo nient’altro
che uno spirito brutale e invincibile, che si vendica in modi piuttosto beffardi
e coloriti. Svuotato quindi il personaggio cardine di tutto il patetico dramma
che poteva venirci ricamato sopra, Johnny
Frank Garrett’s Last Word è un vero e proprio assalto visivo, con un
andamento molto simile a uno slasher alternativo come poteva esserlo Final Destination. Colli spezzati in
fondo alle scale o matite piantate negli occhi sono solo alcune delle sorti
riservate ai giudici di Garrett, e sebbene il film non insista troppo su un
aspetto morboso o violento le immagini lasciano comunque uno strato di appiccicoso
sudiciume addosso: le lunghissime urla di Garrett, le reazioni dei bambini o il
malessere provato dalle vittime prima della morte sono piccoli aspetti che
fanno la differenza, perché capaci di rivoltare la linearità del film in un
mosaico di dettagli finissimi.
Sebbene siano lontane la pesantezza e la
brutalità psicologica dei precedenti film di Rumley, e nonostante sia assente
quella freschezza importante per far risaltare film di questo genere, a farla
da padrone sono i ritmi serrati e il virtuosistico lavoro di editing (a cura di
Robert Hall, fidata spalla di Rumley): la feroce parte giudiziaria sceglie
termini e frasi affilati come rasoi, gli avvenimenti si susseguono con un
bombardamento di sequenze secche di vita comune e morti esagerate, e in
generale si viene scaraventati a terra dalla bravura compositiva di Rumley, che
riformula e rimodella la tragedia per darle un taglio quasi musicale. Un grande
carattere visivo, quindi, che divora ogni cosa nei continui scambi temporali
che precedono la battaglia finale e che esplode in un confronto davvero
ingegnoso di fronte alla resa dei conti.
Per carità, tolto tutto questo ricchissimo
lavoro di costruzione visiva, la storia rimane sempre eccessivamente basilare e
pertanto viene a mancare quella sorta di gradita sorpresa nel progressivo
svelarsi del mistero: tutto è così etichettato che non c’è spazio per una
sincera meraviglia orrorifica e, complice anche un protagonista dal taglio non
troppo memorabile, per quanto ben inserito in un piacevole quadro famigliare,
si segue il film privi di quella necessità di proseguire, perché in fondo si sa
già cosa succede e il livellarsi dei toni impedisce anche qualche buon sussulto. Manca qualcosa anche al villain perché, seppur spinto in una direzione di pura irruzione demoniaca, a tratti sembra perdere consistenza e diventare uno sciocco cattivo da filler televisivo di un Law & Order qualsiasi.
Rimane comunque un bel film d’altri tempi e
moderno allo stesso tempo, uno di quei rari casi in cui l’operazione nostalgica
è un forte contributo a una specifica e personale idea estetica. Rumley ha già
un nuovo film in rampa di lancio e altri due in lavorazione, nel complesso un
thriller, uno sportivo e un gangster: peccato non ci sia traccia d’orrore ma,
con una simile visione, è in ogni caso autore di cui fidarsi ciecamente.
Ma non preoccuparti, l'importante è recuperarlo :)
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