Dalla Danimarca, un horror di splendidi personaggi e terribili gravidanze: la recensione di Shelley
Se trailer e locandina potrebbero circoscrivere
l’argomento portante e bloccarlo con paletti davvero troppo grossi per
stuzzicare qualche curiosità assopita, è invece davvero incredibile quello che Ali Abbasi riesce a fare con così poco a disposizione, sottolineando sì la
semplicità di una gravidanza demoniaca simile a quelle accadute a moltissime
altre sfortunate mamme cinematografiche (in primis Rosemary’s Baby, a cui è impossibile non associare un certo
immaginario), ma modellando un incubo maestoso e annichilente che lascia ben
più di un brivido.
Più che una storia da seguire, in Shelley spicca il rapporto tra due
donne, separate da età, geografia e natura, ma unite da una sensibile e
commovente necessità materna. Louise abita in riva al lago con il marito ed
entrambi seguono una vita semplice e sana: coltivano ortaggi, allevano galline
e non hanno bisogno dell’elettricità per essere felici. Purtroppo Louise non
riesce a portare a termine una gravidanza e, ormai sopra i quarant’anni, si
rassegna a non poter più essere madre.
L’incontro con Elena, una ragazza rumena assunta
per aiutarla in casa a causa, forse, di una non troppo chiara salute cagionevole, e
l’amicizia che ne nasce la spingono a chiederle di portare in grembo suo figlio
pur di esaudire il suo sogno più grande. Ma, come si conviene a ogni buona
storia del terrore, qualcosa comincerà ad andare storto. E la parte migliore di
Shelley, contro ogni aspettativa, è proprio questa “qualcosa”.
È vero che abbiamo già visto e letto
l’inevitabile sviluppo problematico che segue al concepimento, ma raramente un
autore, soprattutto in questi ultimi anni di fecondazioni sataniche zeppe di
balzi ed effetti cheap, ha saputo giocare con tanta maestria con una concezione
dell’orrore così sottile. Prima di tutto perché l'argomento principe con cui era più facile inciampare viene del tutto scartato, in quanto non ci sono tracce di scuotimenti
visivi e sussulti sonori, né di ormai comode e sciocche indicazioni infernali, tutt'altro: quella plasmata da Abbasi è una sensazione malevola,
quel tipo di dolore impreciso ma difficilmente sopportabile, che lascia esausti
e incapaci di agire come durante un sonno febbricitante.
In Shelley
non ci sono risposte né momenti in cui la nebbia si dipana e permetta di
intravedere una risoluzione, e non c’è modo migliore del non sapere, dell’ignoto
più schietto e palese, per alimentare l’orrore. L’orrore è uno smarrirsi in un
luogo che non si conosce, la distruzione graduale di ogni
certezza, l’annullamento della più piccola materialità a cui aggrapparsi, il sopravvento di un impulso primitivo che non si può
calcolare né controllare. L’orrore è la lenta scomparsa del quotidiano e la sua
trasformazione in un qualcosa da cui fuggire.
È difficile quantificare e descrivere quello che
subisce Elena, se non la paura nella sua forma più concreta e schiacciante, il
buio più assoluto, privo di appoggi, dove è possibile soltanto brancolare senza
direzione fino a un punto cruciale dal quale non è più permesso tornare
indietro. Il feto che cresce nel suo ventre è un grumo di materia nera, un
tumore maligno che lascia senza speranza e le causa dolori tremendi, eppure
ogni esame e ogni analisi risultano normali. Nessun errore, nessun’anomalia,
nessun segnale d’allarme.
È grazie a questo compromesso tra disfacimento
psicologico e fisico che Shelley diventa
rapidamente un insieme di angosce palpabili e interrogativi disperati: Abbasi
non fornisce alcuna soluzione ai quesiti sollevati, ma percezioni, sospetti,
tentativi di districare nodi che solo un male innominabile può sciogliere. Il
meraviglioso avvicinarsi tra Louise e Elena si disgrega così in un progressivo distacco
feroce e bestiale, e l’affetto che legava due donne lontane si converte in
sospetto e sfida, aspetti ben peggiori di un semplice odio, perché mai puri,
mai veri, ma portatori di dubbi e ambiguità.
Un film di piccoli dettagli e approcci
realistici, quindi, che ferisce e tramortisce raccontando dell’incubo materno
più antico con alcune tra le sensazioni e le immagini più difficili da
assimilare (l’avvicinamento sessuale nella parte conclusiva è talmente
sgradevole da trasformare l’erotismo in una massa ripugnante), e con una
gestione sopraffina del soprannaturale, che crea picchi estremi di inquietudine
(il bagno nella vasca, la cena con gli amici) sfruttando routine, consuetudini
e semplicissime normalità.
Sembra che Ali Abbasi stia ora lavorando afianco di John Ajvide Lindqvist, se confermata sarebbe splendida, splendida
notizia perché non potrebbe esserci accoppiata migliore per rimarcare la bontà
dell’horror scandinavo. Un sconvolgente debuttante il primo nel trattare
l’orrore di tutti i giorni, un bravo, sofisticato narratore di incubi
quotidiani il secondo, entrambi alle prese con mezzi e ambizioni simili. Non resta che incrociare le dita.
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