Regia: George A. Romero
Sceneggiatura: George A. Romero
I morti si risvegliano improvvisamente, senza un perché. Accade e basta. Jason, studente di cinema, e i suoi amici, cercano di scappare dalla minaccia. Loro unico scopo, oltre alla sopravvivenza, è quello di filmare tutto ciò che vivono, in modo da poter mostrare la verità al mondo intero.
Quasi quarant’anni dopo l’evento che, in un modo o nell’altro, ha cambiato il modo di fare horror (in ogni sua corrente artistica, dal cinema alla letteratura, passando per i fumetti e i videogiochi), il papà degli zombi George Romero torna ancora una volta a parlare dei suoi amati figlioletti putrescenti, avventurandosi per l’occasione in nuovi sottotesti critici e in (relativamente) moderne usanze di girare.
Tanti anni di esperienza cinematografica e tanti capolavori sui quali è inutile spendere parole, eppure il maestro, forse vecchio, forse bisognoso di mettersi alla prova sulla materia che conosce meglio, è per la quinta volta alle prese con i morti viventi. Cambierà il contesto (campus universitario, giovini bellocci e viziati), cambierà la struttura (tecnica blairwitchiana del mockumentary), sparirà la vaga linea evolutiva dei precedenti quattro capitoli, ma ciò che resta è il malessere di Romero, che lo spinge a spruzzare di vomito e sangue certi risvolti della società.
Servirsi dei morti viventi è sicuramente il modo più semplice con cui lui sa esprimersi, e, in fondo, la carica deambulante di corpi senza vita crivellati di colpi che sprigionano le sue pellicole è sempre tale che non si sente la necessità di un’urgente dose di originalità.
Quello che più colpisce è che Romero, snobbando pensione e felici isole remote in cui sbronzarsi di cocktail tropicali e bikini ricolmi di carne, ha ancora tante, tantissime cose da dire. E sa dirle. L’attacco sociale stavolta è rivolto ai media bugiardi e a un certo modo di vedere Internet come strumento manipolatore/ipnotizzante. Critica che di per sé arriva anche con qualche anno di ritardo, ma che, nel modo in cui prende vita attraverso dialoghi e comportamenti dei protagonisti, penetra il cervello e si conficca nella coscienza.
Ricordandosi che si sta parlando di un film horror, bisogna dire che nessuno sa padroneggiare gli zombi meglio di Romero, inutile negarlo, e infatti Diary of the Dead abbonda di trovate ingegnose e soluzioni visive singolari e appaganti, che in mano a qualsiasi altro filmaker si sarebbero smarrite in buchi scritturali e altri virus dell’industria cinematografica. Un personaggio geniale come Samuel porta un uragano di freschezza a un genere che dalla fine degli anni '70 non ha più niente da dire. Così come le morti e gli strumenti usati per metterle in pratica: falci, defibrillatori, acidi, archi e frecce, e ancora molte altre intuizioni che divorano e sputano l’intero cinema zombesco degli ultimi anni, in un tripudio di intestini e cervelli grumosi non esagerato come in passato, ma comunque abbondante e appetitoso.
Tuttavia, Diary of the Dead è lungi dall’essere un film riuscito. La stanca forma di mockumentary (nata e morta con The Blair Witch Project, salvo qualche piacevole eccezione, come il nostro Road to L.), tolta la primissima parte ben costruita, non si dimostra mai la scelta giusta per raccontare quanto succede. Infatti, non sempre si ha la sensazione che gli stratagemmi scelti in fase di montaggio e giustificazione siano corretti, consentiti e più che altro probabili (l’epilogo su tutti, ma anche i continui tagli su altri nastri registrati), e ciò comporta un senso di frustrazione perenne lungo tutto i novanta minuti. Così come arreca un fastidioso mal di testa il continuo intromettersi del punto di vista della protagonista, che commenta le fasi salienti del film in una telecronaca spesso retorica e sostanzialmente inutile. Raccontare la storia senza il bisogno di giustificarla anche dal punto visivo sarebbe stata la soluzione magari più tradizionale, ma sicuramente migliore, anche in virtù di un ottimo script, sia a livello di personaggi che di eventi.
Non piacciono nemmeno tante soluzione registiche, che, in un processo involutivo che porta da soddisfacenti piano sequenza e soggettive a imbarazzanti rallenti, mostrano una notevole incertezza nel descrivere gli eventi.
Stanchezza, invecchiamento o eccessiva impersonificazione nel progetto (errori, impliciti o meno, compresi), non ci è dato saperlo. E forse è meglio così.
Resta il fatto che Diary of the Dead è un pentolone di alti e bassi, e un compendio fin troppo rigoroso della carriera di un maestro, una carriera fatta ovviamente di perle e passi falsi, e che di certo non può chiudersi con una pellicola poco più che sufficiente (anche se sotto certi aspetti è certamente ottima) che non gli rende il giusto onore.
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