XX (2017)

By Simone Corà | giovedì 16 marzo 2017 | 00:01

Quattro registe per quattro episodi in una notevole antologia zeppa di disagio, disastri famigliari e demoni assortiti                                                                                     

Dopo tante, troppe occasioni sprecate, sembra essere giunto un vero riconoscimento per i film a episodi. Non si è persa la strategia comoda e superficiale con cui mettere insieme una manciata di cortometraggi per una pallida mascherata da film completo (vedi il recentissimo Galaxy of Horrors, di cui comunque parleremo), ma Southbound lo scorso anno ha posto i primi paletti di una maggior definizione del progetto, e XX sottolinea adesso l’importanza di una pianificazione generale per dare un’idea più completa all’opera.
XX unisce quattro registe, e si potrebbero spendere righe su righe per ribadire quanto forte sia la presenza femminile nella scena horror più recente. Ma credo che alla fine si ripetano sempre gli stessi concetti, e trovo molto più interessante glissare su questo aspetto (che in un bel mondo non dovrebbe nemmeno venire sottolineato) per concentrarmi su quello che è più importante, e cioè la materia prodotta. In fondo siamo qua per goderci un buon film horror, no?
Il primo elemento interessante di XX è il non chiamare a raccolta solo le autrici che hanno già saputo distinguersi negli ultimi anni, ma di mettere un solo nome di spicco (Karyn Kusama di The Invitation a fare un po’ da guida) e lasciare spazio a talenti freschi. Abbiamo sempre bisogno di nomi nuovi, in fondo, e queste occasioni sono ottime opportunità. 

Jovanka Vukovic sceglie un racconto di Jack Ketchum per costruire il suo The Box, e lo spunto di partenza non poteva che essere materiale davvero tosto, come da sempre ci ha abituato il papà de La ragazza della porta accanto. In metropolitana un bambino scorge il contenuto di una scatola e, da quel momento, smette di mangiare. Nessuno ne capisce il motivo, né lui è in grado di spiegarlo. Succede, e basta.
Porre queste domande permette di creare orrori devastanti perché privi di risposta e motivazioni, e non resta a chi vive questi incubi che accettare l’assurdità delle situazioni. È un processo di assimilazione a piccole dosi dell’irrazionale, come iniettarsi ridotte quantità di veleno per diventarne insensibili, solo che l’unica conseguenza dell’orrore è il rimanerne traumatizzati sino alla follia, ovvero ciò che capita a Susan. 
Bello il disegno del suo personaggio, così afflitto e toccante, protagonista di una sequenza memorabile (quella della cannibalizzazione) che mostra una figura materna dolorosa come solo le madri potrebbero capire ed essere. Dalla più semplice e innocua delle paure materne, quell' "hai mangiato?" che qualunque madre ha ficcato in testa ai figli nelle occasioni più disparate, ne nasce un orrore davvero sgradevole, un malessere sottocutaneo che non si può estirpare in alcuna maniera. Provate a pensare a quale strazio possa essere una risposta vuota e silenziosa a questa domanda, senza che vi corrisponda un vero disturbo fisico, un qualcosa che possa mettere in moto la macchina affettiva di una madre. Un dolore difficilmente immaginabile. 
Non c’è una grande affidabilità narrativa, la vicenda forse è vissuta con troppa superficialità all’inizio e non ci si spiega perché passino dei giorni prima che i genitori decidano di intervenire, ma nel complesso la storia regge bene fino al massacrante finale.


Annie Clark è un po’ la sorpresa del quartetto: musicista alla sua prima esperienza cinematografica, pur con un’idea di fondo sciocchina in The Birthday Cake esprime una visività ispirata e interessante, fatta di colori accecanti, acconciature da cartone animato e costumi strampalati, all’interno di un’estetica ricercatissima zeppa di inquadrature glaciali e comportamenti bizzarri.
Più che una storia qui abbiamo a che fare con un’idea, quella di una donna depressa che tenta in tutti i modi di nascondere il cadavere del marito per evitare di rovinare la festa di compleanno della figlia. Anche qui quindi una figura materna che è disposta a tutto pur di salvaguardare i figli, che nulla pone tra la bambina e il suo benessere se non il benessere stesso, arrivando ad annullare sé stessa e il matrimonio senza nemmeno porsi il problema. La situazione stavolta è declinata in un’atmosfera zuccherosa e da black comedy, vengono meno l’angoscia e la disperazione del corto precedente nonostante le similitudini concettuali.
Similmente a quanto scrivevo sopra, una madre carro armato che sposta il mondo pur di far contenti i figli è quell'immagine potente dietro la quale tutti si sono nascosti durante l'infanzia. Ma quella sicurezza che infonda la figura materna, quel suo abbraccio che difende da ogni cosa qui assume un aspetto tragicomico che strappa una smorfia davvero agrodolce.
Il problema, più che altro, è che la povertà del soggetto è facilmente calpestabile dalla spumeggiante quanto ingombrante scelta visiva, che si finirà inevitabilmente per ricordare con un mezzo sorriso in bocca.

Don’t Fall segna una brutta frenata, ed è un vero peccato che a firmare questo terzo corto sia propria quella Roxanne Benjamin che già aveva partecipato a Southbound. Dopo due episodi dalla forte impronta femminile, Don’t Fall fa il verso a un modus operandi rozzo e ignorante classicamente maschile, con un gruppetto di giovani scemi che va ad alcolizzarsi in una radura protetta e risvegliano un’antica entità che li trucida giustamente.
I minuti a disposizione sono pochi e non bastano a cavare qualcosa da una non-storia che funziona solo nelle piccole esplosioni gore. Si spende troppo tempo a sottolineare la stupidità dei protagonisti e nulla viene riservato alla mutazione, di colpo abbiamo un mostro che li insegue e li uccide male e boh, sembra mancare un bel pezzo. Fa piacere vedere una mano comunque ruvida e incline alle splatterate, ma in un’opera così fine a sé stessa non trovano alcun incoraggiamento: in fondo questa non è una gara a chi picchia più forte, ma se proprio bisogno correre almeno è il caso di farlo per una storia completa, con pur in un tempo limitato possa svilupparsi.
Purtroppo una pessima parentesi, poco interessante, noiosa e che a poco serve in un progetto complessivo che mirava a ben altro. 

Ma si finisce per fortuna in bellezza con Karyn Kusama, che costruisce un grande rapporto tra madre e figlio all’interno di una storia semplice e intramontabile come quella dell’Anticristo. Il sorgere del male puro visto in un malessere adolescenziale di rabbia e ribellione forse non è un grande esempio di originalità, ma negli approcci materni, nei dialoghi e nei pianti c’è tutta la sfera emozionale che si può instaurare: delusione, paura, abbandono, e su tutto un amore totale come solo quello di una madre può essere, una donna che arriva persino a inginocchiarsi (in una sequenza di sublime malignità) per elevare su un trono (non per forza quello dell'Inferno) il proprio figlio.
Al di là della pienezza di un concetto illustrato così bene, Kusama costruisce ottime sequenze di disagio e alienazione (il colloquio con la preside su tutte) e fornisce il miglior crescendo atmosferico del quartetto, con una puntualissima semina di indizi tra il soprannaturale e l’indecifrabile.
Probabilmente il corto più compatto e potente, quello più serio e professionale, l’unico che esprime in venti minuti tutto il potenziale a disposizione senza rimpiangere qualche minuto in più.      


Giusto menzionare infine la cornice in stop motion a cura di Sofia Carrillo, lugubri incisi fatti di bambole dagli sguardi neri e case affamate, un bell’incubo surreale che sarebbe piacevole vedere in forma e contenuti più sostanziosi. 

Nel complesso ne esce un progetto discreto, che proprio in virtù della mano femminile riesce a dare quel quid in più a idee dal potenziale forse non così accattivante: tre lavori su quattro funzionano infatti egregiamente e in maniere diverse stampano malesseri e disturbi che, nelle mani di un maschietto, di certo avrebbero risaltato di meno. Ma andiamo con ordine. 
Imdb purtroppo non perdona e assegna un brutto 4,7 che presenta in maniera davvero sgarbata e immeritevole il progetto. Era forse inevitabile, chi lo sa, ma meglio non darci peso e attendere magari una parte seconda. 

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