Tie Me Kangaroo Down, Sport
Arriva un po’ così, come una mannaiata di Mick
Taylor, il terzo episodio di Wolf Creek,
senza news, approfondimenti o botte pubblicitarie con cui alimentare la
salivazione. Una mini serie in sei episodi, prodotta da Stan, che pare il nome
di un vecchio zio americano e invece è una sorta di Netflix australiana che vuole
garantire fedeltà ai primi due capitoli attraverso violenza e ferocia che i
dictat televisivi potevano amputare. Se poi Greg McLean supervisiona il progetto
per non snaturarne potenza e atmosfera noi siamo tutti felici, cosa volere di
più?
Insomma, una discreta bomba atomica rilasciata
in un’unica sessione per un sadico bingewatching che puzza di viscere umane, carcasse
di animali e fumi di scarico.
Progetto interessante, anomalo, spiazzante, una
sorpresa che cala in maniera brutale, un’idea che ha molto da elaborare e
offrire nonostante la sua natura virtualmente ripetitiva e potenzialmente
debole dopo la maestosità selvaggia dei primi due atti: le differenze si
avvertono, un calo, quantomeno visivo, è inevitabile, ma i nervi scoperchiati
da McLean in questi sei episodi impensabili sono di quelli più dolorosi.
Rovesciando per l’ennesima volta lo spirito
strutturale della storia, dal torture porn del primo atto al survival con
grosse venature umoristiche del secondo, Wolf
Creek diventa di nuovo altro, circoscrivendo la figura di Mick Taylor, che
conserva ironia e risata carismatica, in creatura spaventosa che agisce sullo
sfondo, apparendo solo in saltuari momenti shock che disorientano e devastano.
Mick è una bestia famelica e irrazionale, uccide
senza ripensamenti chiunque incroci la sua strada, lo fa con divertimento ma
anche per una primitiva necessità di non avere ostacoli tra i piedi: kill is
always the best solution. Sbarazzarsi di ogni cadavere non è un problema, lo fa
con la semplicità automatica di chi ammazza da una vita, niente di più facile.
Ma forse qualche traccia è rimasta, sepolta sotto la polvere australiana.
Il bello di questo terzo Wolf Creek sta forse proprio negli omicidi passati di quest’aussie
redneck: storie dimenticate che riemergono gravide di orrori e pulsioni ferine,
diventando parte della ricerca di Eve per scovare il nascondiglio di Mick.
Vittime che non hanno ottenuto giustizia, cadaveri diventati troppo presto
polvere, persone che Eve accoglie durante il suo viaggio iniziatico, da atleta
con dipendenze improvvisamente orfana a Terminator spietato e guidato da un
unico pensiero: uccidere Mick Taylor non solo per ciò che ha fatto alla sua
famiglia, ma per tutte le vite rubate e per ciò che ha scatenato con i suoi
ghigni mefistofelici e il suo fucile sempre in spalla.
Sei puntate molto diverse che cambiano toni e
registri pur non perdendo mai di vista la crescita individuale di Eve, si passa
volentieri dall’umorismo nero verboso e da un certo taglio grottesco ingegnoso
(su tutto la storia dell’apparizione della Madonna) a un’esistenziale caccia
all’uomo (con tanto di spirito guida che le insegna controlli e tecniche per
poter fare la guerra migliore) fatta di enormi silenzi e sguardi che si perdono
negli infiniti deserti.
Scelte diverse ma leit motiv unico e coerente,
cosa abbastanza difficile da gestire e che invece assicura continua benzina su
un fuoco che non si spegne mai.
Poi, chiaro, non tutto gira bene, anzi, ci sono
molti scricchiolii che fanno oscillare fin troppo il baraccone, scelte di
comodo che evitano complicazioni legate alle distanze percorse (più volte si
ripete quanto sconfinata sia l’Australia eppure i personaggi continuano a
incontrarsi per puro caso), all’alto numero di protagonisti che incrociano le
proprie strade (poliziotti, motociclisti, ergastolani, turisti… c’è veramente
troppa, troppa gente che passa da queste parti), per non parlare anche di certe
semplificazioni visive che appiattiscono la violenza (messa tutta fuori campo e
giusto con qualche spruzzata avara di sangue digitale) per poi farla scoppiare
esageratamente con improvvisi sbalzi fatti di animali squartati, viscere
strappate, arti amputati e teste impalate che danneggiano un qualsivoglia
equilibrio.
Un equilibrio che viene fortunatamente
riassestato dalle apparizioni del sempre grande John Jarratt, che dona stavolta
al killer australiano un’aura più apocalittica, mostruosa, quasi soprannaturale
nella sua capacità di materializzarsi dall’ombra scuotendo ogni cosa.
La sua bravura separa forse troppo una sorta di
esitazione o maldestria del resto del cast, sia Lucy Fry e la sua vendetta che
Dustin Clare e i suoi muscoli da gladiatore non ruggiscono abbastanza ma
portano a casa quel che serve, nell’attesa di una seconda stagione, si spera, sorprendente come questa chicca.
Intanto magari può essere buona cosa procurarsi
i due romanzi prequel, anche lì c’è lo zampino di McLean e uno standard
qualitativo dovrebbe essere assicurato.
McLean è ormai una specie di garante della violenza australiana. Vai sempre sul sicuro, con lui, qualunque cosa faccia. E a proposito, sono molto curiosa di vedere la sua ultima ghost story, sempre con Lucy Fry nel cast, insieme a Kevin Bacon e a Radha Mitchell.
RispondiEliminaIo questa miniserie me la sono già vista un paio di volte. E ho nelle orecchie la devastante melodia dei titoli di testa da almeno un mese.
Finora non ne ha sbagliata una, ha un'idea precisa e una bella personalità. E anche se di The Darkness ho letto male ovunque, la curiosità pure per me è altissima :)
EliminaSe mi dici che funziona, la recupero, avendo adorato i due film. :)
RispondiEliminaFunziona, funziona benissimo. E' un po' sgangherata e forse priva di un bell'equilibrio, ma lo spirito dei film è replicato alla perfezione :)
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