Valigia pronta e biglietto in mano per otto horror-vacanze
So
che dovrei scrivere di cose più importanti, vista la quantità di
bombe atomiche uscite in questo periodo i temi dovrebbero riguardare
ben altro ma, se The Invitation
necessita ancora di metabolizzazione adeguata per non ritrovarmi a
mettere insieme puttanate qualsiasi, The Witch
ancora manca dai miei schermi perché probabilmente sono l’unico
che continua a sperare in una versione migliore senza i sub coreani.
Che volete, anche l’occhio vuole la sua parte.
Un
intervallo come Holidays
ci casca bene, in fondo non servono grossi approfondimenti, e dovrei
rilanciare al prossimo giro con Emelie,
che forma accoppiata interessante con il giocattolino Hush
di cui ho appena parlato.
Non
ho una grande considerazione dei cortometraggi, non riesco a trovarne
una corrispondenza che possa in qualche modo determinarli come storie
in miniatura, alla stregua di un racconto che un romanziere affermato
piazza qua e là in qualche antologia – in fondo la meccanica è la
stessa ma, boh, in questi anni di tentativi antologici con collage di
micrometraggi che spuntano come funghi non è ancora stato possibile
dimostrate come autori con una o più pellicole alle spalle riescano
a funzionare anche sulla piccola distanza.
I
vari ABC e
Tales of Halloween
and family giocano su quel fattore cumulativo che vanifica la
qualità, ovvio che più nomi inserisci in un progetto maggiori sono
le possibilità da fare breccia nel pubblico che magari segue uno o
l’altro, ma con pochi secondi a disposizione anche un nome
interessante può trovarsi alle strette e patteggiare un risultato
finale che puzza più di esercizio di stile e/o sperimentazione che
reale costruzione narrativa.
Ma
se queste operazioni falliscono miseramente per la povertà venduta,
ben vengano idee molto più interessanti come i tre V/H/S
(che pur non centrando spesso il bersaglio hanno comunque lanciato
frecce assai piacevoli) o Southbound,
che utilizza sì una sorta di sperimentazione, ma per letture
diversificate e innovative del genere stesso.
Holidays
rischia parecchio, in primis per un titolo terribile che poco offre
in termini di curiosità e consistenza, e poi per non sembrare altro
che l’ennesimo titolo multinome che nulla offre se non, appunto,
una serie di nomi con uno strascico di lavori niente male da
ricordare. Nessun progetto sofisticato, nessuna direzione generale,
nessun tentativo superiore con cui lasciare un qualche segno: solo
otto segmenti, uno per ogni festività, sguinzagliati nelle mani di
nove registi.
(Per
la cronaca, tolto un Kevin Smith che dopo una lunga carriera comica
null’ultimo periodo si è reinventato autore horror, abbiamo a che
fare con autori con un curriculum ancora corto ma segnato da lavori
di una certa rilevanza come Starry Eyes e The Pact,
quindi è impossibile non stimolare un appetito che, bisogna dirlo,
viene per fortuna saziato.)
Unica
possibilità di lasciare una firma dignitosa rimane ovviamente quella
di una storia coerente e ben costruita, dieci/quindici minuti sono
sufficienti per dire la propria e infatti Holidays,
pur non potendo contare su un assemblaggio corazzato che ne possa
fare un progetto unificato, ha il suo perché (o meglio, i suoi otto
perché).
E
allora cominciamo con l’autopsia track by track:
Valentine’s Day apre le danze con il duo Kevin Kolsh/Denis Widmyer e, pur con una storia furbetta e comoda, si entra in un bel mood che strappa un sorriso da una parte e un bel coinvolgimento dall’altra. Si parla di bullismo e cotte adolescenziali, entrambi i temi vengono spalmati su lunghi dialoghi (i monologhi urticanti della bulletta) e immagini di potenza irresistibile (lo scenario che muta all’arrivo dell’allenatore), e anche se la strada è lineare e prevedibile il finale arriva giusto e ficcante come era lecito attendersi.
Patrick’s
Day alza
il tiro, tira in ballo un folklore che sa molto di The
Wicker Man
mischiato con un orrore fatto di occultismo e magia nera, accenni
lovecraftiani e follia musicale. Un bell’incubo, magari non sempre
inquadrato ma di sicuro il pezzo più coraggioso e ricco di spunti.
Nicholas
McCarthy ha dato moltissimo alla scena con The
Pact e ha
indovinato molte atmosfere in At the Devil’s Door,
ed Easter
era il corto che attendevo di più: strano, irregolare e sbilenco,
anche qui si respirano sapori sulfurei e di vaga angoscia da sonno
febbrile, ma la creatura-coniglio è fantastica e, pur trattandosi di
poco più di un’istantanea, lascia addosso sensazioni colme di
disagio e disperazione.
Mother’s
Day parte
da uno di quegli spunti così elementari quanto intriganti, e seguire
le sorti spente e sofferenti di una ragazza che, nonostante l’uso
di qualsiasi tipo di contraccettivo, rimane incinta a ogni rapporto
sessuale, plasma un fastidio e un imbarazzo gestiti da una brava mano
femminile (quella di Sarah Adina Smith, hanno parlato molto bene del
suo The Midnight’s Swim,
ancora mi manca) che purtroppo non regge bene fino in fondo
preferendo adagiarsi su scelte più semplici e molto meno personali e
marcate.
Simile
discorso per Father’s
Day, che
per molti minuti spurga un’angoscia e un’inquietudine maestosi
seguendo una ragazza alla scoperta del padre creduto morto, ma la
struttura mefistofelica crolla di fronte a una conclusione dove tutto
implode lasciando un certo amaro. Potenzialmente il miglior corto,
con un Anthony Scott Burns da tenere d’occhio per il futuro.
Halloween
vede un Kevin Smith disimpegnato e divertito in una tarantinata
piacevole ma senza grosse sorprese, in fondo è tutto abbastanza
ordinato e confezionato in questa storia di vendetta dove tre camgirl
si vendicano del loro pappone. Poche idee bruttine espresse bene,
cosa vuoi, per un autore con undici regie alle spalle è fin troppo
facile regalare una cosetta tanto per, brutto da dire ma è così,
dell’insieme è sicuramente il lavoro meno ispirato.
Con
Christmas
Scott Stewart prova a dare senso a una carriera finora
incomprensibile, il risultato è un inaspettato e gradevole approccio
alla Black
Mirror,
con una sci-fi sociale credibile e tosta, dove però rimane più
impresso l’immaginario legato alla possibilità tecnologica che una
storia che presto si libera della rigidità per escursioni esagerate
che ne affannano un po’ la visione generale.
Conclude
New Year’s
Eve, con
i papà di Starry
Eyes di
nuovo alla penna Adam Egypt Mortimer dirige un violento incontro
sentimentale: è una storia di humor nero e grottesco sanguinario, è
un divertissment carino ma che sfuma senza alcun graffio e privo della potenza brutale del suo Some Kind of Hate.
Insomma, una cosina mi pare di capire guardabile..magari me lo segno, intanto aspetto al tua rece di The Invitation che ancora mannaggia a me non sono riuscita a vedere.
RispondiEliminaMale non è, poi boh, per me i corti sono sempre poco interessanti, la mia testa fa fatica a concepire una storia che non duri almeno che so venti minuti. Questo è molto meglio delle varie cose di microcorti uscite negli ultimi anni, niente di imprescindibile ma a tratti è molto piacevole.
EliminaThe Invitation settimana prossima :)
Avevo buone speranze per i nomi coinvolti (ho adorato Starry Eyes e amo visceralmente Kevin Smith), ma sono rimasto piuttosto deluso. Ho trovato piatti quasi tutti gli episodi, concordo in particolare su Father's Day, potenzialmente era il migliore ma il finale lo banalizza molto.
RispondiEliminaMah, ripeto, per me gli standard non sono malaccio proprio perché sono riusciti a creare delle piccole storie coerenti, con inizio-sviluppo-fine, e alla fine ogni porzione ha qualcosa da offrire. L'ho visto con piacere ma oh okay finisce lì e poi già dimenticato. :)
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