Holidays (2016)

By Simone Corà | lunedì 2 maggio 2016 | 00:01

Valigia pronta e biglietto in mano per otto horror-vacanze                                                  

So che dovrei scrivere di cose più importanti, vista la quantità di bombe atomiche uscite in questo periodo i temi dovrebbero riguardare ben altro ma, se The Invitation necessita ancora di metabolizzazione adeguata per non ritrovarmi a mettere insieme puttanate qualsiasi, The Witch ancora manca dai miei schermi perché probabilmente sono l’unico che continua a sperare in una versione migliore senza i sub coreani. Che volete, anche l’occhio vuole la sua parte.
Un intervallo come Holidays ci casca bene, in fondo non servono grossi approfondimenti, e dovrei rilanciare al prossimo giro con Emelie, che forma accoppiata interessante con il giocattolino Hush di cui ho appena parlato.

Non ho una grande considerazione dei cortometraggi, non riesco a trovarne una corrispondenza che possa in qualche modo determinarli come storie in miniatura, alla stregua di un racconto che un romanziere affermato piazza qua e là in qualche antologia – in fondo la meccanica è la stessa ma, boh, in questi anni di tentativi antologici con collage di micrometraggi che spuntano come funghi non è ancora stato possibile dimostrate come autori con una o più pellicole alle spalle riescano a funzionare anche sulla piccola distanza.
I vari ABC e Tales of Halloween and family giocano su quel fattore cumulativo che vanifica la qualità, ovvio che più nomi inserisci in un progetto maggiori sono le possibilità da fare breccia nel pubblico che magari segue uno o l’altro, ma con pochi secondi a disposizione anche un nome interessante può trovarsi alle strette e patteggiare un risultato finale che puzza più di esercizio di stile e/o sperimentazione che reale costruzione narrativa.
Ma se queste operazioni falliscono miseramente per la povertà venduta, ben vengano idee molto più interessanti come i tre V/H/S (che pur non centrando spesso il bersaglio hanno comunque lanciato frecce assai piacevoli) o Southbound, che utilizza sì una sorta di sperimentazione, ma per letture diversificate e innovative del genere stesso.

Holidays rischia parecchio, in primis per un titolo terribile che poco offre in termini di curiosità e consistenza, e poi per non sembrare altro che l’ennesimo titolo multinome che nulla offre se non, appunto, una serie di nomi con uno strascico di lavori niente male da ricordare. Nessun progetto sofisticato, nessuna direzione generale, nessun tentativo superiore con cui lasciare un qualche segno: solo otto segmenti, uno per ogni festività, sguinzagliati nelle mani di nove registi.
(Per la cronaca, tolto un Kevin Smith che dopo una lunga carriera comica null’ultimo periodo si è reinventato autore horror, abbiamo a che fare con autori con un curriculum ancora corto ma segnato da lavori di una certa rilevanza come Starry Eyes e The Pact, quindi è impossibile non stimolare un appetito che, bisogna dirlo, viene per fortuna saziato.)
Unica possibilità di lasciare una firma dignitosa rimane ovviamente quella di una storia coerente e ben costruita, dieci/quindici minuti sono sufficienti per dire la propria e infatti Holidays, pur non potendo contare su un assemblaggio corazzato che ne possa fare un progetto unificato, ha il suo perché (o meglio, i suoi otto perché).
E allora cominciamo con l’autopsia track by track:


Valentine’s Day apre le danze con il duo Kevin Kolsh/Denis Widmyer e, pur con una storia furbetta e comoda, si entra in un bel mood che strappa un sorriso da una parte e un bel coinvolgimento dall’altra. Si parla di bullismo e cotte adolescenziali, entrambi i temi vengono spalmati su lunghi dialoghi (i monologhi urticanti della bulletta) e immagini di potenza irresistibile (lo scenario che muta all’arrivo dell’allenatore), e anche se la strada è lineare e prevedibile il finale arriva giusto e ficcante come era lecito attendersi.

Patrick’s Day alza il tiro, tira in ballo un folklore che sa molto di The Wicker Man mischiato con un orrore fatto di occultismo e magia nera, accenni lovecraftiani e follia musicale. Un bell’incubo, magari non sempre inquadrato ma di sicuro il pezzo più coraggioso e ricco di spunti.

Nicholas McCarthy ha dato moltissimo alla scena con The Pact e ha indovinato molte atmosfere in At the Devil’s Door, ed Easter era il corto che attendevo di più: strano, irregolare e sbilenco, anche qui si respirano sapori sulfurei e di vaga angoscia da sonno febbrile, ma la creatura-coniglio è fantastica e, pur trattandosi di poco più di un’istantanea, lascia addosso sensazioni colme di disagio e disperazione.

Mother’s Day parte da uno di quegli spunti così elementari quanto intriganti, e seguire le sorti spente e sofferenti di una ragazza che, nonostante l’uso di qualsiasi tipo di contraccettivo, rimane incinta a ogni rapporto sessuale, plasma un fastidio e un imbarazzo gestiti da una brava mano femminile (quella di Sarah Adina Smith, hanno parlato molto bene del suo The Midnight’s Swim, ancora mi manca) che purtroppo non regge bene fino in fondo preferendo adagiarsi su scelte più semplici e molto meno personali e marcate.

Simile discorso per Father’s Day, che per molti minuti spurga un’angoscia e un’inquietudine maestosi seguendo una ragazza alla scoperta del padre creduto morto, ma la struttura mefistofelica crolla di fronte a una conclusione dove tutto implode lasciando un certo amaro. Potenzialmente il miglior corto, con un Anthony Scott Burns da tenere d’occhio per il futuro.

Halloween vede un Kevin Smith disimpegnato e divertito in una tarantinata piacevole ma senza grosse sorprese, in fondo è tutto abbastanza ordinato e confezionato in questa storia di vendetta dove tre camgirl si vendicano del loro pappone. Poche idee bruttine espresse bene, cosa vuoi, per un autore con undici regie alle spalle è fin troppo facile regalare una cosetta tanto per, brutto da dire ma è così, dell’insieme è sicuramente il lavoro meno ispirato.

Con Christmas Scott Stewart prova a dare senso a una carriera finora incomprensibile, il risultato è un inaspettato e gradevole approccio alla Black Mirror, con una sci-fi sociale credibile e tosta, dove però rimane più impresso l’immaginario legato alla possibilità tecnologica che una storia che presto si libera della rigidità per escursioni esagerate che ne affannano un po’ la visione generale. 

Conclude New Year’s Eve, con i papà di Starry Eyes di nuovo alla penna Adam Egypt Mortimer dirige un violento incontro sentimentale: è una storia di humor nero e grottesco sanguinario, è un divertissment carino ma che sfuma senza alcun graffio e privo della potenza brutale del suo Some Kind of Hate.   

4 commenti:

  1. Insomma, una cosina mi pare di capire guardabile..magari me lo segno, intanto aspetto al tua rece di The Invitation che ancora mannaggia a me non sono riuscita a vedere.

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    1. Male non è, poi boh, per me i corti sono sempre poco interessanti, la mia testa fa fatica a concepire una storia che non duri almeno che so venti minuti. Questo è molto meglio delle varie cose di microcorti uscite negli ultimi anni, niente di imprescindibile ma a tratti è molto piacevole.

      The Invitation settimana prossima :)

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  2. Avevo buone speranze per i nomi coinvolti (ho adorato Starry Eyes e amo visceralmente Kevin Smith), ma sono rimasto piuttosto deluso. Ho trovato piatti quasi tutti gli episodi, concordo in particolare su Father's Day, potenzialmente era il migliore ma il finale lo banalizza molto.

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    1. Mah, ripeto, per me gli standard non sono malaccio proprio perché sono riusciti a creare delle piccole storie coerenti, con inizio-sviluppo-fine, e alla fine ogni porzione ha qualcosa da offrire. L'ho visto con piacere ma oh okay finisce lì e poi già dimenticato. :)

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