Dove si spiega perché una pizzata sia la scelta migliore per l'addio al nubilato
Una certa forma di body horror rischia, da
qualche anno a questa parte, di diventare microgenere a sé stante ma destinato
a regredire portandosi dietro una serie di disattenzioni che potrebbero alla
lunga privarlo di qualsiasi slancio provocatorio e reattivo.
Frantumare la figura femminile ricoprendola di
ferite infette, squarci che marciscono e decomposizioni che ne annullano il
corpo è esercizio delicatissimo che solo penne esperte possono risolvere a
testa alta. C’è chi ha puntato anche molto più in alto attraverso
un’umiliazione che risalta caratteri fieri e di commovente purezza, ma Chad Archibald non è Pascal Laugier né Lucky McKee, e non è nemmeno Eric Falardeau,
che con il suo malatissimo Thanatomorphose
ha bene o male dato il via a tutto.
Chad Archibald è invece un autore con carriera
già ben avviata ma con, boh, non un film pienamente valido che possa far ben
sperare: produttore, sceneggiatore e regista, tanti ruoli con i quali
spezzettare le già non altissime idee valide, spargendole quindi in lavori
troppo innocui e modesti per innescare qualche chiacchiera.
Ma se Bite
non è il film che sconvolgerà la sua carriera, ancora troppo legato agli
standard tardoadolescenziali e lacunosi di molto cinema recente, è quantomeno
un progetto che finalmente mette in campo qualche spunto più valido e forzuto
con cui poter districarsi dalla melma putrida di molto horroraccio simile.
Il bite del titolo è il morso di una qualche
creatura ai danni di Casey durante l’addio al nubilato in Costa Rica: lei
ritorna a casa e la puntura si infetta, si ingrossa, sgorga pus a più non posso
e presto dilaga in tutto il corpo. Fine.
Eccola qui, l’incognita: concentrare ogni
aspetto sul deragliamento anatomico trascurando ogni altra cosa e vanificando
quindi il potere simbolico di ciò che viene inscenato. Ma per fortuna Archibald
(che ha un cognome troppo simpatico e non posso fare a meno di ridere ogni
volta che lo scrivo) le prova tutte per mettere un po’ di sostanza in un film
che, altrimenti, morirebbe male sin dai primi minuti mockumentarosi loffi e
inutili.
Alle feste alcoliche e alla dance sparata a
volumi alieni, e in generale agli schiamazzi scemi di queste tre ragazzette
poco sveglie che si concedono una settimana di furia anarchica lontano dalla
civiltà, Archibald fa seguire una serie di riflessioni sulle quali l’horror, o
almeno l’horror non troppo sofisticato, raramente prova a interrogarsi.
Casey infatti deve sposarsi a breve ma forse non
ama così tanto il suo futuro marito, che per la cronaca è un bigotto con l’idea
del coito post-matrimoniale e sogni di figliamenti veloci e abbondanti (o forse
sarebbe meglio dire che è soltanto un
ingenuotto pacifico che gestisce la sua non-vita solo per forte imposizione
materna): lei invece non vuole avere figli, e nascondergli questa scelta sta
diventando un fardello troppo pesante con cui convivere. Ma a tutto c’è un
limite. Come deve comportarsi? Deve stoicamente tenere tutto dentro e
sopportare una certa, anche involontaria, preminenza maschile come vorrebbe un
preciso modello di pensiero cristiano, o può svuotare tutto il marcio inside
per poter inseguire una vera felicità?
Certo, l’argomento viene affrontato con il tatto
di un boscaiolo (la poca sensibilità di lui, la pedanteria della madre, la poca
intelligenza di Casey nel rendersi conto a due giorni dal matrimonio che
saranno cazzi amari) ma è interessante veder mettere sul piatto questo svincolo
dalla figura femminile tipo (non solo cinematografica).
La maturità, la fase adulta, il matrimonio e i
figli: sembra che la vita debba rispondere meccanicamente e inconsciamente a
una serie di ingranaggi che regolano l’esistenza di ogni individuo in due
grosse macro categorie. La gioventù significa divertimento, l’adultità
significa diventare genitori. And that’s all. Viviamo in una società che non
riconosce fasi intermedie, scelte differenti e possibilità disuguali (sì, dai,
se ne sta accorgendo solo in quest’ultimo periodo, ma che fatiche…): a un certo
punto si diventa grandi e bisogna metter su famiglia, e l’unica famiglia
riconosciuta è quella formata da genitori e figli.
Casey non è la più sveglia del mondo a
interrogarsi proprio adesso su questi temi, a chiedersi a cosa sia disposta a
rinunciare per il matrimonio, o se sia realmente pronta a mettere da parte qualcosa
della sua vita precedente, ma quantomeno si pone delle domande e stringe i
pugni per avere delle risposte.
Ne nasce un simbolismo piacevole seppur
Archibald non lo padroneggi del tutto o, comunque, non lo renda limpido e
potente come avrebbe potuto, ma la buona volontà si premia e perlomeno traspare
uno sviluppo narrativo dove i personaggi secondari e mentalmente menomati (le
amiche di Casey) hanno ruoli sorprendentemente attivi e significativi (le
chiedono, le consigliano, la appoggiano, la criticano, e pure molto altro).
L’improvvisa gravidanza di Casey è quindi
inevitabile molla scatenante di baruffe, dubbi, odi e sospetti, e la sua
trasformazione corporea diventa in parte specchio del sopruso femminile causato
dalla tradizione religiosa più ortodossa, e in parte necessità di autonomia su
leggi umane ancora dominate da molta superficialità. Una penna migliore avrebbe
levigato il tutto con forme ed espressioni più genuine, qui bisogna
accontentarsi di un concetto vago e forse non così autentico, d’altronde è un
film che non offre uno spunto di riflessione ma, più che altro, cerca di darne
uno. E non dimentichiamo che siamo anche nell’horror di seconda fascia, sarebbe
sleale chiedere di più.
Il resto ovviamente è una cascata di purulenze e
sporcizie corporee: Casey partorisce migliaia di uova viscide, la sua casa
viene ricoperta da melma trasparente, i cadaveri si accumulano in ragnatele di
bava e il mostro diventa incontenibile. Piano piano lei si trasforma in mostro
acquisendone istinti primitivi e bisogni non più umani, e in questo aspetto il
film guadagna i suoi momenti migliori: il corpo di Casey non subisce un mero
disfacimento organico, ma una potentissima mutazione, e quindi ogni centimetro
di pelle persa e ogni goccia di liquido giallo versato serve per condurre il
suo organismo a una versione 2.0 ricca di artigli e violenza primigenia.
La visività è buona anche se pare trattenuta,
poteva scoppiare un finimondo che cancellasse ogni sbavatura e invece tutto
rimane perimetrato in quattro locali che purtroppo amplificano le sviste (il
futuro marito che non va mai a trovare la sua sposa, il medico chiamato solo
per telefono, la puzza che non si spande nell’intero edificio allarmando
chiunque, il computer che scampa al disastro di liquami, e si potrebbe
continuare parecchio).
Ma sono mali minori, che si imparano ad
accettare perché non sono questi a danneggiare il risultato finale di un film
che, non va dimenticato, è fatto da una mano rozza e probabilmente incapace di
ambire a qualcosa di più raffinato, e proprio per questo sorprendente in molte
occasioni.
Segno anche questo, e già che ci sono ti invito a fare un salto da me :) http://www.cumbrugliume.it/2016/05/29/liebster-award-2016/
RispondiElimina:-)
EliminaGrateful for shaaring this
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