Sorry Eve, but the killer is in another house, o del rape & revenge che comincia dalla fine
Ha fatto parlare di sé più per il suo
punto di partenza che per effettivi contenuti, anzi, nell’uscire nei cinema
tricolori, con tanto di titolo italianizzato in inglese (Reversal) e buon battage pubblicitario di immagini e trailer, pare
essere solito rigurgito giovanile con cui staccare qualche biglietto facile per
poi resettare la memoria.
Ma sarebbe un vero peccato dimenticarsi di
Bound to Vengeance, nonostante i
soliti schemi produttivi lo presentino come cattivo esempio da seguire: regista
non americano da sfruttare dietro promesse di carriere, attori giovanissimi,
ennesima protodivetta da lanciare contro gli schermi, and go on. In realtà la
Dark Factory che lo produce è ancora più giovine e appena al suo secondo film,
e distribuisce worldwide IFC, che ultimamente sta sguinzagliando il meglio dell’horror
recente.
Smascherati i pregiudizi, e okay, pollice
alto per la bontà iniziale, che fa cominciare la storia laddove le altre di
solito esplodono nella parte conclusiva, è giusto salvare Bound to Vengeance
per una solidità di stampo quasi videoludico che rende il film aggressivo, potente
e con uno sviluppo piacevolmente curioso.
Eve fugge dalla stanza in cui è
imprigionata e spacca il cranio al suo rapitore: ancora qualche minuto di
dolore, urla di rabbia e faccia sporche di sangue, giustizia è fatta, poi
partono i titoli di coda.
Un rape & revenge funziona grossomodo
così, con i primi due terzi occupati, nei casi migliori, a dare spessore alla
protagonista, parlare del suo passato e delle sue speranze poi infrante, per
poi riabilitarne la figura, o elevarla sempre in quei casi migliori, quando
l’orrore la sradica dalla sua quotidianità.
Bound
to Vengeance inverte la struttura: per raccontare di Eve
sfrutta una manciata di flashback, che in realtà sono il punto più debole del
film, perché Eve non avrebbe bisogno di questa telecronaca per essere
presentata al pubblico, basterebbe la forza con cui non si dimentica
l’obiettivo prefissato, il dolore che tiene a bada per mettere un piede davanti
all’altro, e la tenacia con cui resiste alla scelta più facile per fare invece
ciò che è più giusto.
Dopo essersi liberata dalla catena e aver
steso il bad guy, Eve scopre che ci sono altre ragazze ancora imprigionate e
che lei è l’unica, in questo maledetto momento, a poter fare qualcosa.
Caricatasi in macchina il killer, girovagare in città da un sotterraneo
all’altro per liberare le altre vittime diventa necessità più che desiderio di
giustizia, e José Manuel Cravioto è bravo a non caricare eccessivamente Eve di
caratteri sensuali o da supereroina, rendendola di fatto una ragazza normale in
una situazione di merda e non un robot che all’occorrenza si attiva e sfrutta il
dolore per estrarre le armi.
Come fosse spinta solo dall’inerzia, come
fosse morta e ora solo il suo corpo potesse muoversi per salvare altre ragazze
sfortunate, Eve non ha mezzi, non ha forza fisica e non ha chiaramente ingegni
machiavellici per ribaltare la situazione, è sopraffatta dal dolore e dalla
sofferenza, si muove a tentoni sperando di fare la cosa giusta e di non
peggiorare lo schifo in cui è immersa, spesso infatti sbaglia, piomba in
circostanze sgradevoli e allucinate eppure affronta l’orrore con tutta se
stessa e gli tiene testa fino alla fine.
Richard Tyson non è un grande attore e nel
parlato sottolinea fin troppo la sua recitazione, ma la pacatezza con cui il
suo killer insiste e confonde le idee a Eve nel professare innocenza è davvero
disturbante, fa l’effetto di un suono stridente che si ripete piano ma senza
fine, trapana orecchie e cervello e sfascia ogni volontà.
La riuscita di un personaggio femminile
come Eve è possibile quindi grazie alla naturalezza di Tina Ivlev e soprattutto
per agli accorgimenti che definiscono il contesto che la sommerge: la brutalità
sottile del rapitore, gli orrori in cui sono coinvolte involontariamente le
altre vittime, ma anche la sequenza di strilli e domande che piove da una
ragazza salvata, interrogativi a cui Eve non può rispondere perché una è la sua
missione e soffermarsi sul resto significa perdere tempo, significa possibilità
di morte.
Ciò non toglie una sorta di artificiosità
nella coerenza del soggetto, pur travestendola con gran cura l’ombra del
giustiziere solitario è comunque evidente seppur manchi il piacere stesso della
vendetta e del procurare morte: Eve vuole salvare, non vuole uccidere. Si
tratta di piccole parentesi o di qualche comodità che la produzione, se non ha
imposto, ha quantomeno suggerito (i già citati flashback, il modo in cui si
sottolinea una certa ingenuità), momenti che vengono comunque assorbiti dal
panzer complessivo perché Cravioto imprime una buona personalità
nell’organizzare spazi e disegnare ambienti (un po’ come accadeva nell’improbabile
ma comunque piacevole The Seasoning House).
Leggeri movimenti di macchina, piccoli
piano sequenza e inquadrature diverse dal solito danno una bella marcia visiva
in più al film, e amplificano quella sorta di lettura videoludica accennata in
precedenza, con Eve che passa da uno stage all’altro per liberare la
principessa Peach di turno. Non è uno schema preciso e rettilineo, ma la
sensazione è quella, di livello in livello Eve acquisisce esperienza e può
distruggere il boss finale.
lo metterò nella lista di film da vedere
RispondiEliminaBe' guarda per me non c'è fretta, eh, rimane un film di genere con tutti i suoi limiti e i suoi schemi, la figura femminile secondo me è più attenta del solito e meno supereroistica e sono stati bravi e questa in fondo è la cosa che mi è piaciuta di più e che mi ha spinto a scriverne, ma non aspettarti cose enormi :)
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