Gli anni Ottanta come non ce li eravamo dimenticati. Finally.
Qualcuno crede che per fare cose belle
sugli anni Ottanta sia per forza necessario riderci sopra. Ma non è mica vero,
o meglio, forse, quando c’è di mezzo la comicità, vale ancora quel vecchio
detto che dopo un po’, a dirla tutta, ci si rompe le balle.
Quando si iniziava a parlare di Kung Fury, tipo un annetto fa, sembrava
che il medio metraggio di David Sandberg potesse dare tutto quello che erano stati
gli eighties mettendo insieme i simboli più conosciuti e filtrandoli con una
demenzialità evidentemente necessaria per giustificare l’esistenza di questo
baraccone nel 2015. Poi è uscito e, be’, si sorride, dài, ma non è questo che
una buona fetta di pubblico andava cercando, perché non è nella presa in giro
che, dopo una discreta manciata di pellicole con cui un po’ tutti si sono fatti
stuzzicare lo stomaco, ci si può saziare per davvero. Se si gioca sul ridere,
meglio seguire gli Astron-6, che fanno parodia con il materiale base e
ancheggiano verso un pubblico esigente rimanendo fissi nel tema e non sforando
mai, ma non basta, serve dell’altro.
Quello che finora era stato soltanto
sfiorato era il bisogno di una vera e propria immersione che desse l’idea di
essere ancora là, nel 1985 o giù di lì, mocciosi o poco più, le mani sporche di
cioccolato e un’immaginazione talmente vasta e meravigliosa da stupirsi e
sognare sui pixel videoludici e sui cataloghi dei giocattoli.
E per fortuna è arrivato Turbo Kid.
Che, a mettere le mani avanti, non si
distacca poi molto da certa impressione tecnica con cui devono fare i conti i
compagni di genere, i soldi sono pochi e si vede, la storia è quello che è e
pure il cast, almeno inizialmente, non è che possa offrire più della buona
volontà.
Ma è in tutt’altro che l’esordio di questo
trio canadese delle meraviglie diventa immediatamente tra i migliori film
dell’anno e conserverà a lungo un posto nel mio cuore, perché Turbo Kid è esattamente ciò che volevamo
che fosse nel richiamare gli anni Ottanta: evita la parodia, rifiuta l’incrocio
di generi, sceglie di non essere autoironico e si limita semplicemente a essere
un film di fantascienza come poteva immaginarlo un ragazzetto con le mutande
bagnate trent’anni fa.
A partire dalla desolazione iniziale, che
bene ricrea quelle atmosfere polverose e sporche con cui era quasi d’obbligo
immaginare il futuro apocalittico, passando per l’uso straordinario delle bmx
(oh god, cos’hanno segnato le bmx in quei tempi!) e concludendo (già nei primi
minuti con una mano vincente che straccia ogni avversario) con a una colonna
sonora fatta sì di grossi synth agrodolci ma che finalmente (come in It follows, d’altronde) vengono cuciti
attorno agli eventi raccontati e non usati come mero ricordo sonoro, Turbo Kid è già storia, punto fisso del
genere da amare e studiare allo stesso tempo.
Poco serve raccontare della trama, è un
semplice pretesto per fare quello che un qualsiasi altro collega avrebbe
riempito di orpelli e decorazioni inutili (e parlo anche di eroi che amiamo
tutti, come Lloyd Kaufman e i suoi Troma Show), e invece Turbo Kid, nella sua bloodbath impressionante, dove non passa
minuto senza che una mascella non venga strappata o un braccio mutilato
versando litri e litri di sangue, gestisce la splatterata con un’eleganza
sopraffina, una leggerezza che non fa mai distogliere l’attenzione e la gola
dal vero spirito del film.
Perché una coppia di protagonisti come
quella qui presente lascia senza parole e riempie gli occhi di lacrime: lui
tipico eroe sognatore ottantiano, ragazzo come tanti catapultato in un mondo
ostile che deve salvare arrabattandosi con il poco posseduto a quel tempo (un
mangiacassette, un fumetto, una bmx e poco altro), lei bellissima e di una
solarità incantevole, vero motore del film con quello sguardo un po’ matto che
conquista tutti.
Ad accudirli un badass carismatico come
vuole la tradizione e un cattivo eccellente come Michael Ironside, il resto
sono solo partecipanti corazzati e armati sino ai denti di una royal rumble di
cui si parlerà per molto tempo.
Bastava in fondo solo questo: qualche
personaggio ben fatto e un’atmosfera da incorniciare, serviva una linearità
come trampolino di lancio per la mente di un bambino, potenzialità che oggi,
con il junk cinema, non è più possibile ma che è magnifico ricordare con queste
immagini. Tutto o quasi superfluo il resto.
Non era certo cosa facile ma immagino
fosse scelta molto più logica (come optato per esempio da Ian Kessler nel bel Lost After Dark) di un gioco a chi
stupisce di più con le cazzate più grosse.
Schietti, semplici, coi piedi per terra:
per fare un film sugli anni Ottanta servivano gli anni Ottanta più veri
possibile, e finalmente qualcuno se n’è accorto.
Bellissimo. Ho ancora le lacrime.
RispondiEliminaNe vorrei scrivere qualcosa anche io, ma ho bisogno di tempo per metabolizzarlo.
Ora, finalmente, possiamo lasciar riposare gli anni '80 in pace...
Sì, a un certo punto anch'io mi sono trovato a corto di parole perché penso sia difficile scriverne, è uno di quei film che si devono vedere e basta :)
EliminaL'ho scoperto solo ieri...
RispondiEliminaVoglio recuperarlo!
Devi! :-D
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