Corna, zoccoli e zolfo, ma non la solita possessione in questo piccolo horror spagnolo
Mi capita sempre più spesso di apprezzare
un film più per le intenzioni che per i reali buoni risultati che ottiene. Sarà
perché nei low budget forse è più facile accontentarsi di alcuni aspetti
riusciti provando a sorvolare sulla mediocrità del resto, di certo non credo
sia la personale ostinazione di vedere del buono a tutti i costi e ancorarsi a
quest’idea per convincersi che, nel panorama del piccolo horror, l’onestà e la
buona volontà abbiano buona probabilità di vincer sempre. Davvero, io ci credo,
sono queste le uniche armi che possono portare a risultati validi.
Ma con Asmodexia
il discorso è abbastanza diverso, perché le ottime intuizioni equivalgono ai discreti
risultati raggiunti nonostante alla fine non si possa dire che si tratti di un
bel film, o meglio ancora di un film riuscito: questa è cosa parecchio strana e
anomala, considerando anche che abbiamo a che fare con un esordio dove
tradizione vuole si vada con i piedi di ferro, ed è meglio essere rozzi e fare
meta come si riesce piuttosto che arrivarci facendo le capriole per compiacere
il pubblico.
Abbiamo spunti narrativi classici come la
possessione, l’esorcismo, il culto di una divinità infernale e l’attesa per il
suo arrivo, ambientazioni ormai logore come il solito ospedale squamoso e il
vecchio manicomio, e personaggi già protagonisti di chilometri di celluloide e
chissà quante migliaia di pagine come un vecchio e saggio esorcista e una
ragazzina che nasconde misteri e forse dei poteri più grandi di lei. Sono elementi
stagnanti e potenzialmente rancidi se nelle mani di uno stronzo qualsiasi, potrebbero
invece funzionare solo per mezzo di penne che sanno scrivere e narrare con le
giuste parole e hanno spalle ben coperte da esperienze magari decennali: il
mestiere è fondamentale per dare rotondità e credibilità a stereotipi che
altrimenti cadrebbero come figure di carta, serve infatti ben più di un
sostegno per reggerli, bisogna riempire volti e corpi ormai anonimi con
motivazioni di ferro e azioni inossidabili, i personaggi devono respirare,
devono vivere.
Tuttavia non è la fine del mondo se MarcCarreté non sa affrontare tali questioni con la maturità che serve, è giovane,
inesperto, molta ingenuità affiora nella formazione proprio di quello su cui il
film dovrebbe mostrare orgoglio e sicurezza – perché tutto il resto viene
rovesciato e mostrato con una deformità davvero singolare, così interessante e,
almeno sulla carta, volenterosa da bypassare quelli che alla fine sono le
molte, ahimè troppe mancanze del film.
Seguendo la filosofia dello show don’t
tell, Carreté non spiega niente di ciò che accade ma tenta di mostrarlo solo
attraverso le azioni e le parole dei protagonisti. È una scelta coraggiosa,
adottare un simile mezzo nel cinema è ben più delicato e difficile da
maneggiare rispetto alla carta (dove è già di suo ardua da applicare), è
necessario calibrare le informazioni e rilasciarle con dialoghi-chiave che
mostrino di essere vere e proprie discussioni tra persone e non spiegoni
camuffati, serve una perfetta conoscenza di background e finalità per far
credere a chi guarda che quello che viene messo in moto, per quanto misterioso,
segue principi e meccanismi con logiche d’acciaio, ed è fondamentale
accontentare e coccolare lo spettatore spargendo rivelazioni e svelando
retroscena con una progressione che vieta, vieta tassativamente il ritiro per
noia o per un a volte inevitabile “non capisco un cazzo”.
E infatti Carreté non è in grado di
reggere il gioco con la giusta sensibilità, i personaggi espongono teatralmente
una complessa mitologia satanica sfidandosi con lunghe sessioni di dialoghi ma
questi sono quasi sempre finti e forzati, la confusione è abbondante e capita
spesso di perdersi dietro sequenze prive di definizioni temporali e qua e là,
ancora peggio, di adeguate cause/effetto: se è piacevole bearsi di un enigma
che si infittisce di minuto in minuto, mettendo in mezzo un buon numero di
personaggi che si trascinano esistenze stralunate e dettate da scopi bizzarri,
a tratti è arduo rimanere in groppa a una sorta di destriero ubriaco, che
oscilla paurosamente tra sovrapposizioni temporali poco chiare, sottotrame che
non trovano spiegazione, figure che appaiono dal nulla e di colpo hanno
importanza fondamentale e chiusure del cerchio un poco scentrate – diciamo che
somiglia più a un ovale sgangherato, ecco, dove un culto ossianico evoca un
demone immondo e, per prepararne l’adeguato arrivo e alimentarne la sete di
sangue, deve costruire particolari e violentissimi terreni ove possa poggiare
gli zoccoli.
Peccato, certo, è una di quelle occasioni
che, in mano a quella gente con quintali di esperienza alle spalle, poteva
raggiungere vette molto interessanti, ma forse proprio gli stessi autori non
avrebbero posseduto l’azzardo per uscire da certi schemi narrativi e provare
approcci diversi.
Non posso dire che Asmodexia mi sia piaciuto, appena terminato ho cancellato il file e
dubito si affaccerà mai di nuovo nella mia tv, è stata una visione non troppo
coinvolgente e, a dirla tutta, nonostante duri solo 80 minuti mi sono anche
annoiato, ma lo spirito che muove questa piccola produzione è così coraggioso e
per certi versi estremamente ambizioso che non posso non esserne felice e
ricordarlo con una bella soddisfazione.
Concordo. Ne avevo parlato più o meno negli stessi termini anch'io. A presto.
RispondiEliminaGià. Speriamo nel suo prossimo film, ci sono molti, molti spunti validi :)
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