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Recensione: Dead or Alive: Final

By Simone Corà | venerdì 4 febbraio 2011 | 13:00

2002, Giappone, colore, 88 minuti
Regia: Takashi Miike
Sceneggiatura: Hitoshi Ishikawa, Yoshinobu Kamo, Ichiro Ryu

Nel 2346, uno spietato trafficante di droga governa una città allo sbando. Ai suoi ordini, un inossidabile killer, una macchina di morte che esegue ogni compito senza fiatare. Contro di lui, un gruppo di rivoluzionari minato da numerosi conflitti interni. Con loro si schiererà Ryo, un potentissimo replicante.

Capitolo abbondantemente minore della trilogia, ma non per questo meno ricco di spunti interessanti, Dead or Alive: Final, come suggerisce il titolo, chiude la saga che ha visto i volti carismatici di Riki Takeuchi e Sho Aikawa battersi a sangue, essere teneri amici d’infanzia e infine, ora, di nuovo abili segugi che si studiano a vicenda per prevenire l’uno le mosse dell’altro. Miike non si smentisce, conferma la natura bislacca della serie e ambienta l’episodio finale trecento anni nel futuro, creando un vago omaggio a Blade Runner (le scene iniziali, i replicanti), e se piace il trasformismo della pellicola, la sua potenza instabile nel passare da ordinario canovaccio action postatomico con ribelli vs megavillain a profondo, intimista, lento dramma personale, è abbastanza palese una certa confusione complessiva e una mancanza di mordente che danneggia la riuscita finale.

Lo script è sfocato e irrisolto, il ritmo altalenante, si balza da momenti di posata teatralità ad altri di noia ingiustificata, da ottime, concise sequenze di combattimento a lungaggini soporifere ed evitabili, e su tutto alleggia un’inattesa non-violenza proprio quando l’esagerata, sanguinaria aggressività era stata punto di riferimento e costante dei primi due episodi. Complice l’assoluta assenza di validi riferimenti scenografico-temporali che diano l’idea di un mondo futuristico (tolta l’astronave iniziale e l’esistenza dei cyborg, dall’aspetto comunque di persone in carne e ossa, sembra di trovarsi ai giorni nostri), si ha quindi l’impressione di un film girato in fretta e con scarso budget, privo della giusta cura nei particolari registici e dialogici. Ciò non toglie la forza di alcuni aspetti, come la tenerezza malinconica evocata dai due bambini protagonisti che si ritrovano invischiati nella guerriglia, la brutalità improvvisa di un paio di twist davvero imprevedibili, la bizzarra scelta linguistica (un misto di mandarino, giapponese e inglese), la seconda metà molto introspettiva e la consueta assurdità della conclusione (e pur nella sua follia insensata, la trilogia non poteva che risolversi in questa maniera).

Non il miglior Miike, soprattutto se paragonato ai due notevoli capitoli precedenti, forse nemmeno un Miike particolarmente stravagante ed eccentrico: con Dead or Alive: Final abbiamo in fondo un non proprio efficacissimo punto d’arrivo della trilogia, ma per una volta tanto, nella sua pazza, sterminata produzione, gli si può perdonare un mezzo passo falso.

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