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Hellraiser – Trent’anni di catene e chiodi (parte I)

By Simone Corà | mercoledì 27 settembre 2017 | 00:01

Uno speciale sui film, i libri e i fumetti che hanno reso immortale il signore delle torture, sua maestà Pinhead                                             

1. INTRODUZIONE: THE BOX. YOU OPENED IT. WE CAME.

Nel 1986 Clive Barker ha 34 anni, ben otto libri pubblicati e due film di cui ha firmato la sceneggiatura.  I sei Libri di sangue (1984-1985), nei quali ha sparpagliato una trentina di racconti di qualità altissima, hanno già rivoluzionato la narrativa horror a suon di anomalie infernali, mutazioni fisiche e un lessico che equilibra poesia e brutalità come nessun altro. Il suo primo romanzo, Gioco dannato (1985), non è invece un grande esordio sulla lunga distanza, e nel raccontare di un classico scontro tra bene e male mostra quella prolissità che in futuro avrebbero un po’ indebolito il passaggio dall’orrore più irruento a un fantasy colmo di raccapricciante meraviglia. Ma nel 1986 Barker torna a esprimersi su una minor lunghezza, terreno dove non ha alcun rivale e può dipingere i suoi quadri più incestuosi: gli bastano infatti poco più di un centinaio di pagine per consegnare Schiavi dell’Inferno all’immortalità grazie a una configurazione dell’Inferno brillante e pruriginosa, in un vespaio di catene, scarnificazioni e piaceri sessuali inenarrabili. Pubblicato in un’antologia della Dark Harvest, assieme a Lisa Tutle e Ramsey Campbell (con il quale ricambierà il sostenimento editoriale dei suoi primi vagiti con l’introduzione all’antologia Il sesso della morte, la raccolta più esplicita e barkeriana di Campbell), e solo nel 1989 presentato in un’edizione stand alone, è grazie al traino del film del 1987, Hellraiser, che l’horror incontra una delle sue più grandi icone: Pinhead, sacerdote infernale, maestro del dolore, leader dei filosofi del sangue Cenobiti.
Molto deluso dai risultati ottenuti dalla collaborazione con George Pavlou, che sulla base delle sue sceneggiature avrebbe partorito capitoli fondamentali del so bad so good cinema come l’orrendo Transmutations (1984) e soprattutto l’infantile Rawhead Rexx (1985), Barker decide infatti di rimboccarsi le maniche e sfondare il mondo della celluloide da solo. Con i bozzetti dei Cenobiti in una mano e un contatto con il produttore Christopher Figg nell’altra, nonostante l’inesperienza dietro una macchina da presa ma con un nome che è già sufficiente a meritarsi grande rispetto, si guadagna un contratto con la New Worlds Pictures e un budget di un milioncino di dollari per costruire il suo castello di sadismo infernale. A differenza di Nightbreed e Lord of Illusions, i film che seguiranno a questa prima esperienza cinematografica e che per colpa di decisioni produttive e rimontaggi osceni chiuderanno per sempre la carriera da regista di Barker, Hellraiser non soffre troppe delle coltellate della censura ed è sopravvissuto fino a ora con una certa integrità e una visione pressoché inimitabile.
Nel 2017 si festeggiano varie ricorrenze barkeriane: il trentennale di Hellraiser; che nella primavera dell’87 esordiva a Cannes; un prossimo capitolo in dirittura d’arrivo, Hellraiser: Judgement, decima installazione della saga, forse non così atteso ma che, dato che c'è, un'occhiata gliela possiamo anche dare; la pubblicazione italiana di svariate opere di Barker a cura di Independent Legions, a partire da Vangeli di sangue, il primo, vero, ferocissimo ritorno dell’autore inglese al mito che più di tutti l’ha reso famoso, e che culminerà proprio con la ristampa, con una nuova traduzione, di Schiavi dell’Inferno, da troppo tempo lontana dalle librerie italiane; e per finire con l'annuncio di Hellrasier: The Toll, un romanzo voluto da Barker per fare da ponte tra Schiavi dell'Inferno e Vangeli di sangue, che sarà scritto da Mark Millar. 

Anche Midian vuole sottolineare un anno importante per questo aspetto dell’horror, ricapitolando un’epopea di storie che intersecano celluloide e cellulosa, che è ben presto naufragata in un delirio di idiozie e inadeguatezze come vuole la tradizione dei sequel horror, ma che, tra gli interventi di Barker stesso per riprendere le redini prima del completo oblio, e qualche inaspettato luccichio, non ha mai fatto perdere al suo leader indiscusso un carisma ineguagliabile.
Questa prima parte si concentrerà sui capitoli più importanti della saga cinematografica, lasciando il resto della produzione filmica a una seconda porzione dell’articolo e, infine, tutto il materiale cartaceo tra romanzi e comic in una terza, ultima fetta che verrà pubblicato nei prossimi mesi. Cominciamo. 

2. I FILM – PRIMA PARTE: LA TRINITA' INFERNALE  



HELLRAISER (1987)
Ci sono pochi altri titoli in grado di reggere così bene il peso del tempo, perché a distanza di trent’anni questo primo confronto con i doni dolorosi dei Cenobiti è ancora robusto, pieno di forza visiva e con un immaginario così rigoglioso da poter insegnare la materia per molti anni ancora a venire. E non è tanto merito del Barker regista, che come ha più volte ammesso era poco più che un principiante a costruire le scene e dirigere gli attori, ma dalle sue visioni sbalorditive, espresse attraverso un compromesso con cast e produzione che difficilmente potrebbe accadere oggi. Due sono i principali fattori di stupore dell’opera: l’insistenza gore e, be’, il modus operandi dei Cenobiti.
Del primo ne parleremo dopo, perché è inevitabile che ciò che più rapisce sia lo squadrone del sesso estremo capitanato dalla faccia di chiodi Pinhead, maestosa figura di pallida carnagione, ferite esposte e sanguinanti e una veste di pelle nera a configurarne come una versione sadomasochistica proto-divina. Proprio dai club S&M di Amsterdam proviene l’ispirazione denim & leather per la mise glaciale del sacerdote demoniaco, mentre i grossi spilli che gli decorano il volto non sono che un’evoluzione di piercing genitali con un insolito utilizzo anatomico. È singolare come il suo nome, che all’anagrafe terrestre, come si scoprirà nel terzo capitolo, corrisponde a Elliot Spencer, non sia che un appellativo, Puntaspilli, che lo stesso Barker non aveva mai inteso come nome d’arte, ma che diventa parte ufficiale dell’universo per grande sollecito del fandom. Molti sono i motivi per cui Pinhead sarebbe dovuto rimanere un semplice individuo infernale, a partire dall’impersonalità che lo rendeva simile ai suoi colleghi nella novella originaria. Ma di questo ne parleremo nella terza parte dell’articolo.
Evocato da un ingranaggio vomitato dall’inferno stesso, la cosiddetta scatola di LeMarchand, e che solo nel quarto film troverà parziale spiegazione, Pinhead declama con voce baritonale castighi e filosofie, mentre Doug Bradley, un amico e coetaneo di Clive Barker al suo primo film, ne cristallizza per sempre il volto cadaverico e la posa statuaria. I suoi servitori cinematografici non possono vantarne lo stesso carisma, ma queste creature dispongono di indimenticabili incesti tra carne e metallo, bocche prive di labbra che emergono da volti senza occhi, eccessi di adipe che ricoprono crani come bende unte, ferri da chirurgo che aprono gole come vagine. I Cenobiti non sono che servitori delle passioni più incalcolabili, insegnanti delle sofferenze, che attraverso catene e uncini torcono, tirano e strappano le carni raggiungendo vette di piacere che non possono essere più superate.     
È sicuramente superfluo soffermarsi ancora su questi aspetti così noti del capostipite cinematografico, sulla potenza evocata da figure demoniache che forse per la prima volta utilizzano un linguaggio visivo che esula da schemi di corna, fiamme ed eleganza. Meglio invece sottolineare i lati truculenti con cui il film si presenta a un pubblico forse impreparato, nonostante gli anni ideali per la ricerca di scene forti, a un simile viaggio sanguinario. Perché se chiare esigenze produttive devono mitigare l’input letterario, modificando la goccia di sperma con una più benevola di sangue per dare inizio alla rigenerazione di Frank, è proprio nella lenta ricostruzione anatomica dell’uomo che il film ha un colossale asso nella manica, ancora oggi in grado di stupire per l’insistenza e il risalto con cui Barker filma fasci di muscoli che pulsano, vene che spurgano sangue, organi che si assestano all’interno dell’ossatura, e in generale una ricopertura viscida che sfonda di parecchio i limiti con cui i grandi maestri del trucco e degli effetti speciali decoravano le loro creature per tutti gli anni Ottanta.
Frank evoca i Cenobiti e rimane intrappolato in un limbo di torture eterne che ne disgregano il corpo, e solo il legame sporco con Julia può estrarlo da questo mondo innominabile. L’amore che sboccia fra i due è però ben più di un banale pretesto per coniugare eros e thanatos, o per un’ordinaria macelleria visiva con cui versare sangue sul pubblico. Hellraiser poteva limitarsi alle scorrettezze lascive con cui Julia seduceva le sue vittime per dare a Frank nuova polpa con cui ripristinare il suo organismo, e forse avrebbe comunque fatto la differenza. Ma la visione di Barker è pregna di disgusto, è ripugnante, difficile da sostenere. L’amore è anche desiderio e il desiderio può essere sporcizia: i contatti tra i due amanti sono grumi di repulsione, allontano invece di attrarre, e tutto questo rientra nel bisogno inspiegabile del dolore per giustificare ciò che siamo: carne, che ha bisogno di essere punta e sanguinare per sentirsi viva.
Tra i due si inserisce Kirsty, che combatterà l’esercito di Pinhead nei primi tre capitoli per poi tornare molti anni dopo, quando la saga filmica passerà nelle mani del direttore della fotografia Rick Bota e quando Barker ritornerà sul luogo del delitto con il ciclo di fumetti Hellraiser per Boom! Studios (da noi pubblicati da Bao): racimolando gli ultimi spiccioli rimasti dal budget è lei a incarcerare i Cenobiti, in uno sfoggio di ahimè pessimi effetti grafici che per fortuna nulla tolgono all’atmosfera seriosa del progetto, nella stessa scatola che li ha richiamati alla nostra realtà e in quel mondo dove lei stessa li inseguirà l’anno successivo.



HELLBOUND: HELLRAISER II (1988)
Se Barker è ormai lanciatissimo come scrittore, con il monumentale Il mondo nel tappeto uscito l’anno prima e Cabal già schedulato per l’anno corrente, nel 1988 ritorna come produttore esecutivo per il l’inevitabile sequel di Hellraiser, a cui la New World aveva concesso il semaforo verde già durante la post produzione del primo capitolo. Peter Atkins alla sceneggiatura è l’innesto giusto, per alcuni anni sarà un grande dell’horror (scriverà il terzo capitolo, creerà Wishmaster e la BBC lo chiamerà in uno speciale televisivo assieme a mostri come John Carpenter, Ramsey Campbell e Barker stesso, Horror Cafè), e le sue visioni, accompagnate dalle idee di Barker stesso sulle origini dei Cenobiti, contribuiranno all’intrigante mitologia dei sacerdoti infernali anche nei successivi due episodi. Si fa marcata la concezione sulla natura umana di Pinhead e servitori, si intravedono sprazzi di passato e si intuiscono probabili contagi infernali, ma il tutto sfuma, soprattutto per problemi di budget, per diventare poi parte integrante di Hellraiser III.
Tony Randel alla regia non fa rimpiangere la lussuriosa truculenza di Barker, i due avevano collaborato al montaggio del primo capitolo e quindi Randel conosce bene la materia. C’è meno personalità nonostante il maggior budget a disposizione ma non mancano quegli squarci di terrore sanguinario e, soprattutto, una ricerca scenografica/ambientale che trascende la realtà in cui incastrare l’orrore per sostituirla con quelle geografie aliene che diventeranno, nei successivi romanzi dark-fantasy, il nuovo marchio narrativo di Barker. Di sicuro, quello che rimane impresso di Hellbound è la follia che domina l’intera storia, cosa forse impensabile al giorno d’oggi. Perché se la produzione poteva imporre un banale retelling dell’idea iniziale, come accaduto nelle tonnellate di sequel delle più famose saghe horror, e come in parte succede nella prima metà, il trio di autori risponde con una grossa fetta di film ambientata in un universo, il Labirinto, preso di peso dagli ingorghi matematici di Escher (che l’anno seguente, assieme agli orrori di ferro e carne dei Cenobiti, Kentaro Miura avrebbe razziato per dare il via a Berserk), dove prende vita un duello tra impossibili magnificenze infernali. Da una parte il Leviatano, con questo lungo tentacolo piantato nella testa del dottor Channard, che domina il Labirinto in un fiorire di artigli, dita, bocche e spilli e molte altre mutazioni anatomiche, dall’altra Pinhead, la sua sete di corpi da distruggere e il desiderio di nobile, stanca vendetta contro Kirsty.
Hellbound è uno strano marchingegno di parentesi gore e invenzioni cruente (fanno impallidire ancora adesso il prologo con la creazione del cranio chiodato di Pinhead e l’evocazione di Julia da un materasso lordo di sangue, escrementi e vermi): funziona infatti a meraviglia quando sono gli ingorghi di carne a dominare la scena mentre inciampa un poco quando Randel cerca di aumentare la tensione con un inferno fatto di classici incubi a occhi aperti influenzati da paure infantili. Ma non importano né la lentezza di alcune parti dialogate né la poca consistenza narrativa di alcune sezioni, quando Hellbound spalanca i cancelli del Labirinto, nonostante i risibili fondali disegnati che fanno da sfondo alla complessità di una dimensione troppo ambiziosa per il budget designato, firma una serie di eccessi difficilmente dimenticabili: il macchinario di siringhe e ossa che divora le anime, i continui riferimenti chirurgici che portano Channard a sfondare inferno e realtà solo attraverso scenari da angoscia ospedaliera, i deliri organici con cui il Leviatano sottolinea le sue affermazioni, tutti aspetti che quasi mettono in ombra l’incedere marziale e solenne di Pinhead e compagni, che combattono uno scontro personale anche con loro stessi. 
Ma è palese come a Barker interessasse espandere il suo universo mitologico e non limitarsi a una semplice riproposizione di schemi e modelli già visti nel capostipite. E per quanto imperfetto e sproporzionato, Hellbound è forse il picco artistico più alto di una saga che, per fortuna, avrebbe avuto ancora un paio di pallottole da sparare prima di eclissarsi del tutto.



HELLRAISER III: HELL ON EARTH (1992)
Nel terzo film si abbassano i toni e si ammorbidisce il pesante drappo tragico che caratterizzava le opere precedenti. Ciò non si significa che la saga subisca una trasformazione tematica, ma complice anche una colonna sonora heavy metal, tra brani degli Armored Saints e dei Motorhead, si respira un’aria diversa, lontana dai castighi divini e dalla violenza scioccante registrati negli anni Ottanta. Anthony Hickox, che arriva dalle due graziose puntate del museo di Waxwork, porta infatti nell’inferno cenobitico un contributo più leggero e divertito, tendente a una serie di sequenze splatter e morti violente che si svincolano dal rigore estetico precedentemente ricercato: i sacerdoti vagano liberi per le strade, compiono massacri senza troppe discriminanti, Pinhead in più di un’occasione persino ride e si prodiga in battute al vetriolo.  
In realtà il marchio drammatico è ancora forte, e la sceneggiatura di Peter Atkins, da un’idea sua e di Tony Randel (con lo zampino di Barker stesso) che avanza da Hellbound, prosegue la storia del puntaspilli, intrappolato in una statua al termine del secondo capitolo. Adesso è lui ad avere bisogno di sangue caldo e carne viva per uscire dalla prigione, ma una volta libero è dalla sua anima che deve proteggersi, quella del capitano Elliott Spencer, liberata da Kirsty nella battaglia finale di Hellbound e ora decisa a mettere fine alla crudeltà di ciò che è diventato dopo il contatto con la scatola di LeMarchand. Cambiano gli eroi (ora è la giornalista Joey, la cui carriera è paralizzata dalla mancanza di uno vero scoop), e cambiano i Cenobiti (ora degli strani ingorghi di carne, cineprese e compact disc) ma il funzionamento infernale risponde ancora alle medesime regole, e forse nella follia spumeggiante di Pinhead, che ride, grida, minaccia e sbeffeggia, abbandonando gli sguardi maestosi e la parlata solenne, si può riscontrare il terrore della sottomissione a cui anch’egli è legato dall’eternità.
Un film divertente ma lento e mal recitato, con una storia che fatica a emergere e che solo nella seconda metà esplode in tutta la sua esagerazione sanguinaria, ravvivando ritmo e piacere visivo. Piace un certo mutamento stilistico, con un esercito infernale che sfrutta la nuova realtà in cui nasce per trovare nuovi innesti chirurgici con cui distruggere ossa e muscoli, piace un po’ meno l’insistenza sopra le righe di una serie di creature che proprio nella quiete glaciale e nell’esistenza enigmatica avevano trovato la chiave per differenziarsi dalla bassa macelleria di cui si rendono qui protagoniste. I Cenobiti squarciano la carne e sbriciolano le ossa, l’ironia era forse meglio lasciarla a Freddy Kruger.     

Per ora ci fermiamo qui, lo speciale continuerà nelle prossime settimane con un approfondimento sulla parte intermedia e su quella inevitabilmente meno bella, ma con qualche sprazzo di inatteso piacere, della saga cinematografica. Alè.

3 commenti:

  1. Super post! Complimenti per l'iniziativa, ti leggerò con gran piacere come ho fatto con questa splendida prima parte di speciale ;-) Cheers

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    1. Grazie. Gli altri arriveranno, boh, tra ottobre e novembre, con calma. :)

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