Il gioco dell'impiccato. Ma più sadico. Parecchio più sadico.
Ad Adam Mason piacciono le storie sporche e
ruvide.
La sua è una carriera che comincia a essere
lunga, il suo primo lavoro è del 2000 e da allora è abbastanza puntuale con un
film più o meno ogni due anni, ma seppur il curriculum lo confini in un’area
abbastanza remota del cinema dell’orrore, quella sempre in bilico tra spunti
apprezzabili e realizzazioni mediocri tendenti al basso, si è comunque
costruito una reputazione tutto sommato solida con Broken, The Devil’s Chair
e Luster.
Non c’è film infatti dove non emerga una forte
violenza psicologica, spesso esplosa da psicopatici, maniaci e deviati, e su
questa nevrosi visiva punta con forza il suo cinema povero, underground, molto
limitato ma che vive di una ferocia primitiva davvero disturbante.
Con Hangman
Mason prova a essere più sottile, va a sottrare parecchia demolizione visiva e
sanguinaria a favore però di un potentissimo disagio che, privo di vera e
proprio violenza, riesce a picchiare spietato con molta più forza rispetto ai
suoi precedenti lavori.
Come vuole la tradizione, la storia è quella di
un maniaco, un uomo devastato da disturbi mentali e ossessioni da internamento
psichiatrico. La differenza, stavolta, è che l’Hangman non esprime la sua
follia con una spirale di violenza incontrollabile, bensì con un controllo
maniacale delle vite altrui. Gli piace infatti individuare una famiglia, infilarsi
in casa loro mentre sono in vacanza, insediarsi in una zona sicura e spiare le
loro vite una volta ritornati, per poi ucciderli quando si stanca.
Alla brutalità quindi Mason preferisce una
tensione scandita con una padronanza che il suo passato da macellaio dava
abbastanza inimmaginabile. E invece è proprio nelle lunghe osservazioni
silenziose che il film dà il suo meglio: l’Hangman studia la famiglia da
pertugi e fessure, e quando comincia ad annoiarsi non si accontenta più di
rimanere nascosto, deve uscire, deve sfidare le ombre, soffiando il suo alito
letteralmente sul collo delle sue vittime.
Per una volta, di questi ultimi tempi, la scelta
del found footage è l’ideale, perché se da una parte l’analisi comportamentale
di Aaron, Beth e figli è scissa dalle molteplici telecamere installate in casa,
avvicinandoci agli occhi dell’Hangman, dall’altra le visuali sporche e
tremolanti conferiscono quell’aria distorta e marcia sulla quale Mason si è
costruito un’intera carriera.
Quello che viene a mancare sono lacune tipiche
di questo tipo di cinema: i personaggi hanno poco spessore e non offrono
granché per potersi affezionare, genitori e figli non sembrano avere grande
giudizio e si affidano a una vita abbastanza trascurabile fatta di ricchezze e
soddisfazioni primarie poco interessanti (brutto esempio è l’acquisto della
pistola, abbastanza discutibile).
Ciò non toglie che la totale padronanza degli
spazi e degli angoli bui dell’Hangman privi tutti loro di agi e conforti con una
bestialità davvero micidiale, e in certi momenti si respira con sincero dolore lo
stesso disorientamento provato da Aaron e Beth, succubi di una presenza quasi
aliena, contro cui nulla possono fare.
Prova piuttosto sorprendente da un autore che ci
aveva abituato a ben altri materiali, potrebbe essere svolta notevole per un
futuro da tenere davvero d’occhio.
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