Hangman (2015)

By Simone Corà | martedì 6 dicembre 2016 | 12:00

Il gioco dell'impiccato. Ma più sadico. Parecchio più sadico.                                                                                          

Ad Adam Mason piacciono le storie sporche e ruvide.
La sua è una carriera che comincia a essere lunga, il suo primo lavoro è del 2000 e da allora è abbastanza puntuale con un film più o meno ogni due anni, ma seppur il curriculum lo confini in un’area abbastanza remota del cinema dell’orrore, quella sempre in bilico tra spunti apprezzabili e realizzazioni mediocri tendenti al basso, si è comunque costruito una reputazione tutto sommato solida con Broken, The Devil’s Chair e Luster.
Non c’è film infatti dove non emerga una forte violenza psicologica, spesso esplosa da psicopatici, maniaci e deviati, e su questa nevrosi visiva punta con forza il suo cinema povero, underground, molto limitato ma che vive di una ferocia primitiva davvero disturbante.

Con Hangman Mason prova a essere più sottile, va a sottrare parecchia demolizione visiva e sanguinaria a favore però di un potentissimo disagio che, privo di vera e proprio violenza, riesce a picchiare spietato con molta più forza rispetto ai suoi precedenti lavori.
Come vuole la tradizione, la storia è quella di un maniaco, un uomo devastato da disturbi mentali e ossessioni da internamento psichiatrico. La differenza, stavolta, è che l’Hangman non esprime la sua follia con una spirale di violenza incontrollabile, bensì con un controllo maniacale delle vite altrui. Gli piace infatti individuare una famiglia, infilarsi in casa loro mentre sono in vacanza, insediarsi in una zona sicura e spiare le loro vite una volta ritornati, per poi ucciderli quando si stanca.
Alla brutalità quindi Mason preferisce una tensione scandita con una padronanza che il suo passato da macellaio dava abbastanza inimmaginabile. E invece è proprio nelle lunghe osservazioni silenziose che il film dà il suo meglio: l’Hangman studia la famiglia da pertugi e fessure, e quando comincia ad annoiarsi non si accontenta più di rimanere nascosto, deve uscire, deve sfidare le ombre, soffiando il suo alito letteralmente sul collo delle sue vittime.    
Per una volta, di questi ultimi tempi, la scelta del found footage è l’ideale, perché se da una parte l’analisi comportamentale di Aaron, Beth e figli è scissa dalle molteplici telecamere installate in casa, avvicinandoci agli occhi dell’Hangman, dall’altra le visuali sporche e tremolanti conferiscono quell’aria distorta e marcia sulla quale Mason si è costruito un’intera carriera.


Quello che viene a mancare sono lacune tipiche di questo tipo di cinema: i personaggi hanno poco spessore e non offrono granché per potersi affezionare, genitori e figli non sembrano avere grande giudizio e si affidano a una vita abbastanza trascurabile fatta di ricchezze e soddisfazioni primarie poco interessanti (brutto esempio è l’acquisto della pistola, abbastanza discutibile).
Ciò non toglie che la totale padronanza degli spazi e degli angoli bui dell’Hangman privi tutti loro di agi e conforti con una bestialità davvero micidiale, e in certi momenti si respira con sincero dolore lo stesso disorientamento provato da Aaron e Beth, succubi di una presenza quasi aliena, contro cui nulla possono fare.

Prova piuttosto sorprendente da un autore che ci aveva abituato a ben altri materiali, potrebbe essere svolta notevole per un futuro da tenere davvero d’occhio. 

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