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Bite (2015)

By Simone Corà | venerdì 27 maggio 2016 | 00:01

Dove si spiega perché una pizzata sia la scelta migliore per l'addio al nubilato           

Una certa forma di body horror rischia, da qualche anno a questa parte, di diventare microgenere a sé stante ma destinato a regredire portandosi dietro una serie di disattenzioni che potrebbero alla lunga privarlo di qualsiasi slancio provocatorio e reattivo.
Frantumare la figura femminile ricoprendola di ferite infette, squarci che marciscono e decomposizioni che ne annullano il corpo è esercizio delicatissimo che solo penne esperte possono risolvere a testa alta. C’è chi ha puntato anche molto più in alto attraverso un’umiliazione che risalta caratteri fieri e di commovente purezza, ma Chad Archibald non è Pascal Laugier né Lucky McKee, e non è nemmeno Eric Falardeau, che con il suo malatissimo Thanatomorphose ha bene o male dato il via a tutto.
Chad Archibald è invece un autore con carriera già ben avviata ma con, boh, non un film pienamente valido che possa far ben sperare: produttore, sceneggiatore e regista, tanti ruoli con i quali spezzettare le già non altissime idee valide, spargendole quindi in lavori troppo innocui e modesti per innescare qualche chiacchiera.
Ma se Bite non è il film che sconvolgerà la sua carriera, ancora troppo legato agli standard tardoadolescenziali e lacunosi di molto cinema recente, è quantomeno un progetto che finalmente mette in campo qualche spunto più valido e forzuto con cui poter districarsi dalla melma putrida di molto horroraccio simile.

Il bite del titolo è il morso di una qualche creatura ai danni di Casey durante l’addio al nubilato in Costa Rica: lei ritorna a casa e la puntura si infetta, si ingrossa, sgorga pus a più non posso e presto dilaga in tutto il corpo. Fine.
Eccola qui, l’incognita: concentrare ogni aspetto sul deragliamento anatomico trascurando ogni altra cosa e vanificando quindi il potere simbolico di ciò che viene inscenato. Ma per fortuna Archibald (che ha un cognome troppo simpatico e non posso fare a meno di ridere ogni volta che lo scrivo) le prova tutte per mettere un po’ di sostanza in un film che, altrimenti, morirebbe male sin dai primi minuti mockumentarosi loffi e inutili.
Alle feste alcoliche e alla dance sparata a volumi alieni, e in generale agli schiamazzi scemi di queste tre ragazzette poco sveglie che si concedono una settimana di furia anarchica lontano dalla civiltà, Archibald fa seguire una serie di riflessioni sulle quali l’horror, o almeno l’horror non troppo sofisticato, raramente prova a interrogarsi.
Casey infatti deve sposarsi a breve ma forse non ama così tanto il suo futuro marito, che per la cronaca è un bigotto con l’idea del coito post-matrimoniale e sogni di figliamenti veloci e abbondanti (o forse sarebbe meglio dire che  è soltanto un ingenuotto pacifico che gestisce la sua non-vita solo per forte imposizione materna): lei invece non vuole avere figli, e nascondergli questa scelta sta diventando un fardello troppo pesante con cui convivere. Ma a tutto c’è un limite. Come deve comportarsi? Deve stoicamente tenere tutto dentro e sopportare una certa, anche involontaria, preminenza maschile come vorrebbe un preciso modello di pensiero cristiano, o può svuotare tutto il marcio inside per poter inseguire una vera felicità?


Certo, l’argomento viene affrontato con il tatto di un boscaiolo (la poca sensibilità di lui, la pedanteria della madre, la poca intelligenza di Casey nel rendersi conto a due giorni dal matrimonio che saranno cazzi amari) ma è interessante veder mettere sul piatto questo svincolo dalla figura femminile tipo (non solo cinematografica).
La maturità, la fase adulta, il matrimonio e i figli: sembra che la vita debba rispondere meccanicamente e inconsciamente a una serie di ingranaggi che regolano l’esistenza di ogni individuo in due grosse macro categorie. La gioventù significa divertimento, l’adultità significa diventare genitori. And that’s all. Viviamo in una società che non riconosce fasi intermedie, scelte differenti e possibilità disuguali (sì, dai, se ne sta accorgendo solo in quest’ultimo periodo, ma che fatiche…): a un certo punto si diventa grandi e bisogna metter su famiglia, e l’unica famiglia riconosciuta è quella formata da genitori e figli.
Casey non è la più sveglia del mondo a interrogarsi proprio adesso su questi temi, a chiedersi a cosa sia disposta a rinunciare per il matrimonio, o se sia realmente pronta a mettere da parte qualcosa della sua vita precedente, ma quantomeno si pone delle domande e stringe i pugni per avere delle risposte.
Ne nasce un simbolismo piacevole seppur Archibald non lo padroneggi del tutto o, comunque, non lo renda limpido e potente come avrebbe potuto, ma la buona volontà si premia e perlomeno traspare uno sviluppo narrativo dove i personaggi secondari e mentalmente menomati (le amiche di Casey) hanno ruoli sorprendentemente attivi e significativi (le chiedono, le consigliano, la appoggiano, la criticano, e pure molto altro).
L’improvvisa gravidanza di Casey è quindi inevitabile molla scatenante di baruffe, dubbi, odi e sospetti, e la sua trasformazione corporea diventa in parte specchio del sopruso femminile causato dalla tradizione religiosa più ortodossa, e in parte necessità di autonomia su leggi umane ancora dominate da molta superficialità. Una penna migliore avrebbe levigato il tutto con forme ed espressioni più genuine, qui bisogna accontentarsi di un concetto vago e forse non così autentico, d’altronde è un film che non offre uno spunto di riflessione ma, più che altro, cerca di darne uno. E non dimentichiamo che siamo anche nell’horror di seconda fascia, sarebbe sleale chiedere di più.


Il resto ovviamente è una cascata di purulenze e sporcizie corporee: Casey partorisce migliaia di uova viscide, la sua casa viene ricoperta da melma trasparente, i cadaveri si accumulano in ragnatele di bava e il mostro diventa incontenibile. Piano piano lei si trasforma in mostro acquisendone istinti primitivi e bisogni non più umani, e in questo aspetto il film guadagna i suoi momenti migliori: il corpo di Casey non subisce un mero disfacimento organico, ma una potentissima mutazione, e quindi ogni centimetro di pelle persa e ogni goccia di liquido giallo versato serve per condurre il suo organismo a una versione 2.0 ricca di artigli e violenza primigenia.
La visività è buona anche se pare trattenuta, poteva scoppiare un finimondo che cancellasse ogni sbavatura e invece tutto rimane perimetrato in quattro locali che purtroppo amplificano le sviste (il futuro marito che non va mai a trovare la sua sposa, il medico chiamato solo per telefono, la puzza che non si spande nell’intero edificio allarmando chiunque, il computer che scampa al disastro di liquami, e si potrebbe continuare parecchio).
Ma sono mali minori, che si imparano ad accettare perché non sono questi a danneggiare il risultato finale di un film che, non va dimenticato, è fatto da una mano rozza e probabilmente incapace di ambire a qualcosa di più raffinato, e proprio per questo sorprendente in molte occasioni.

3 commenti:

  1. Segno anche questo, e già che ci sono ti invito a fare un salto da me :) http://www.cumbrugliume.it/2016/05/29/liebster-award-2016/

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