Southbound (2015)

By Simone Corà | mercoledì 16 marzo 2016 | 08:00

Ladies and gentlemen, Larry Fessenden presents: the Devil                                                          

Va bene, arrivo un po’ tardi e con una pausa più lunga del previsto, di questi tempi ho IL ROMANZO in testa e tutte le writing skills vengono brutalmente dirottate lì, ripristinando hp e mp con tutte le pozioni che trovo. Il blog latita un po’ e mi spiace, per fortuna non ci sono grossi scossoni nel setaccio horror degli ultimi tempi, anche Krampus è purtroppo una grossa merda fumante ed è ennesimo esempio di come un approccio mainstream sia sempre più da evitare, e quindi salvo un paio di titoli da approfondire più avanti non mi sento poi così in colpa nel saltare qualche appuntamento.
Southbound è per fortuna uno di questi perché centra pienamente un bersaglio che da anni la scena sta inseguendo muovendosi un po’ a tentoni. Di tutti i progetti multiauotore alimentati e spinti dalle collettività horror che sembrano trovare forza, energia (ma ahimè anche ripetizione, oltre che a una certa furbizia maliziosa di fondo) in una coesione artistica sulla carta quantomeno sincera, Southbound è probabilmente l’unico film a episodi con una propria circolarità e un’anima ben definita.
Se gli ABC's crollavano miseri sotto i colpi dell’eccessiva frammentazione, se i V/H/S offrivano poche idee confuse per equilibrare gli spunti validi, e se A Christmas Horror Story puntava troppo, troppo in basso nonostante la piacevolezza generale, nell’attesa di dare un’occhiata ai German Angst e ai Mexico Barbaro per farsi una vera idea intercontinentale sull’episodicità del terrore (no more ABC’s or Halloween Tales allowed on this site), Southbound si distingue dai tanti colleghi spuntati come funghi velenosi proprio perché pare fiorire attraverso un lavoro di squadra che, finora, si è raramente percepito.

Una strada polverosa che si consuma in una fetta di terra arida e rossa, un germogliare letale di paesini e situazioni che lambiscono i gironi infernali e marciscono in atmosfere surreali da incubo, cinque storie che iniziano l’una dove finisce l’altra per generare un malessere continuo, fatto di weird, black comedy, splatter, e ancora culti ossianici, mostrologia assortita e vendette ultraterrene per novanta minuti di pura concezione horror.
Non è un classico disclaimer modello “no vampiri no zombie” per sottolineare un’indagine argomentativa che vada al di là degli archetipi più conosciuti, Southbound ha l’apertura e la freschezza, con i dovuti paragoni, di un’antologia di un King degli anni d’oro o, forse meglio, di un Libro di sangue per la varietà dei contesti, la fragranza del dolore, la simpatia luciferina e l’abbondanza visiva quando l’aspetto più horror viene scatenato.

Cinque storie, quindi (e non è un caso il pentacolo stampato nella locandina), presentate da un Larry Fessenden in veste di Crypt Keeper radiofonico, solita garanzia indie che allo stesso tempo sostiene, nutre e spinge una buona percentuale della scena:
Un inseguimento senza fine, dove creature alate e con fauci enormi definiscono i confini di una strada sempre più stretta e incomprensibile. Partenza in media res, un continuo mostrato che annienta qualsiasi tipo di spiegone, le domande rimangono più in vista delle risposte ma c’è una grande costruzione sulfurea, sporca e con una propria mitologia che viene sfiorata quanto basta per saziare la curiosità anche se tutto rimane sospeso. Dirige il collettivo Radio Silence, l’unico valido perché al primo V/H/S.
Una setta cannibal-culinaria con una bella sfilata di weirdo, è l’episodio meno valido da un punto di vista creativo, motivazioni e snodi centrali sono forse fiacchini ma il sovrastrato di caratteri, facce, pasti e contesti è da urlo, tanto che la storia stessa passa in secondo piano rispetto al gusto di stili e contrapposizioni creati.
Una lotta tra demoni in un bar oltre le dimensioni che ricorda molto la violenza grezza e fantasiosa di Garth Ennis, il discorso qui è lo stesso del precedente, si comincia in quarta e prima di avere qualche risposta c’è tutto un circo demoniaco da sfoggiare in una pioggia di unghioni, tatuaggi e spruzzate di sangue.
Un home invasion con risvolto e ritorsione soprannaturale dove i rapitori finiscono braccati da un orrore terremotante, una catena d’acciaio a inchiodarlo al primo segmento, si parte piano ma si finisce con terremoti e boati da armageddon, anche qui i punti di domanda si sprecano ma la potenza orrorifica è così brutale da annientare tutto il resto. 
E l’episodio migliore e più schietto, un automobilista che, dopo aver investito una ragazza, cerca di salvarla in un ospedale dunwichiano sotto le direttive di una voce misteriosa: una botta di adrenalina, un ritmo che non conosce sosta, una notevole fisicità rosso sangue per una serie di immagini per stomaci forti ricche, brillanti e originali.


Violenza sostenuta e abbondante, gore fisico e viscerale (quella gamba staccata è un nuovo punto fisso dopo le gambe spezzate di Frozen), assenza di ragazzini foruncolosi e insipidi per una buona rosa di caratteri diversi e interessanti, tensione ben dispensata e twist assestati con una certa intelligenza, ma soprattutto vivacità e spontaneità di intenzioni con idee magari non sempre centrate e a tratti canalizzate in una strada chiusa ma nella media potenti, genuine, legate a una concezione horror dove l’horror stesso è screening di spunti e visioni.
No fantasmi, no slasher, no serial killer, no assedi, no commedia, soprattutto no cliché rivisitati o invertiti: in Southbound si respira quell’aria buona di chi ha voglia di creare. Alleluia.

Certo, non è una bomba, un film di possibile culto, una tappa importante nella marcia odierna, non è titolo per chi ama il cinema perché usa certe limitazioni del genere per proteggersi da ingenuità, sbrigatività narrative e varie concessioni comode, ma è un bella fontana dove molti horror fan dovrebbero sostare per rifocillarsi.  

2 commenti:

  1. L'ho adorato, proprio per la sua continuità circolare. Non è un film frammentario, non dura due ore e mezza che alla fine ti sfiancano e ha uno stile ben definito.
    Davvero bello bello bello

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    1. Vero. Ed è fatto di idee. Non tutte perfette, a tratti un po' azzardate e deliranti, ma pur sempre belle idee. :)

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