Regia: Jim Gillespie
Sceneggiatura: Kevin Williamson
Cast: Agnes Bruckner, Jonathan Jackson, Laura Ramsey, DJ Cotrona
Morso da alcuni serpenti usati in un rito haitiano, Ray si trasforma in una creatura mostruosa che semina panico e morta in città. Toccherà a due fidanzatini in crisi cercare di fermarlo.
La cultura teen slasher non ha mai avuto particolari occasioni per dare qualche scossone a determinate coordinate stilistiche immobili come un palo della luce. Scream, So cosa hai fatto e Urban Legend (citando il giusto riconoscimento alle serie culto di Halloween e Venerdì 13, of course) hanno di fatto dato il via alle danze e, allo stesso tempo, inflitto una coltellata mortale a un certo modo di fare cinema. Pellicole fotocopia, modellate su canovacci sputazzati in pezzi di carta igienica, che hanno mostrato fin da subito tutto quello che poteva offrire il genere. Non che nel corso degli anni non vi sia stato qualche lampo insperato (l’ottimo Wolfcreek), ma, in fin dei conti, valicare i limiti di una struttura tanto easy e andare oltre porterebbe a non parlare più di teen slasher, e quindi vedere qualche spiraglio di luce in questo particolare sottogenere sarebbe un po’ come sperare che Lynch si mettesse a fare commedie adolescienziali.
Venom , nella sua completa assoggettazione a precisi modus operandi ormai morti e sepolti, si compone di tutti i cliché possibili (la compagnia di ragazzi bellocci, il cattivone mostruoso e... be’, basta, non è che ci sia molto altro) e si presenta con un soggetto striminzito e ordinario quanto un lavoro da impiegato. Non ci sono sorprese che destino lo spettatore né momenti di particolare tensione o repulsione visiva. Nemmeno scene palpitanti di nudo godurioso o di gore viscerale. Per non parlare di un cast di bei faccini ma con qualità recitative che rasentano a stento la sufficienza.
C’è poco, molto poco, è vero. Eppure è un poco fatto bene.
C’è questo strano meccanismo che funziona e che, tutto sommato, rende Venom una pellicola piacevole da vedere. Gillespie (esperto nel campo, visto che So cosa hai fatto è di sua proprietà) dirige bene, senza ancoraggi televisivi o ammorbidamenti svogliati per la storia di poco conto; c’è giusto qualche noioso sospiro modernista qua e là (le inquadrature su Ray), con movimenti frenetici e velocizzati. E si può addirittura glissare su un paio di rallenti bruttini e totalmente inutili.
Insospettabilmente, anche la sceneggiatura non è un semplice abbozzo scritto dietro a uno scontrino. Non che la storia presenti complessità e o profonde finezze psicologiche, ma nella sua semplicità è ben gestita e, a guardare con attenzione, certe trovate (il motivo per cui Ray è un mostro, la prima strategia adottata per ucciderlo) sono insolite, curiose e costruite con intelligenza.
Piace molto l’ambientazione, un misto di paludi e acquitrini melmosi che rendono marcia e sgradevole la strada per la salvezza, fattore molto apprezzato vista anche la spiacevole presenza degli evil Weinstein Bros tra i produttori. E se da un lato si comprende amaramente il perché del gore poco marcato (alcune scene mostrano sulla carta una certa brutalità che fa piangere il cuore per come è stata smorzata), dall’altro ci si compiace anche e soprattutto per la spruzzatina di vudù e culti haitiani, che donano atmosfera e cenni di assenso.
Il film naturalmente poi ricade su di sé in tante stupidaggini che ormai bisognerebbe bandire dalla cinematografia (il ramo spezzato che fa rumore, dio mio), ma nel complesso tutto scorre gradevolmente e, insomma, ciò è molto bene, perché già questo è un ottimo traguardo da raggiungere quando c’è il fiato dei fratelli Weinstein sul collo.
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