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The Machine Girl

By Simone Corà | mercoledì 27 agosto 2008 | 17:48

2008, Giappone, colore, 96 minuti
Regia: Noboru Iguchi
Sceneggiatura: Noboru Iguchi
Cast: Mikase Yashiro, Ryosuke Kawamura, Yuya Ishikawa, Noriko Kijima, Kentaro Kishi

Yu e Takeshi sono due liceali presi di mira da un gruppo di bulli capeggiato dal figlio di uno yakuza. Quando i teppisti, al termine di un gioco crudele, li uccidono entrambi, Ami, sorella di Yu, rimasta priva di un braccio, inforca una mitragliatrice e dà inizio alla sua vendetta personale.

Saldamente ancorato a radici che sostengono enormi alberi genealogici senza segni di cedimento (La casa, Splatters), The Machine Girl è un devoto atto di riconoscenza verso la demenza intrisa di sangue e di intelligenza, un rispettoso inchino a un certo modo di filtrare la serietà, e un orgoglioso dito medio a chiunque passi di qui per caso.

Assorbita l’idea che regge il plot (essenziale, semplice, elementare), The Machine Girl è una collezione di blood geyser infiniti, arti mozzati, teste strappate e sparatorie ninja in continuazione, con pochi momenti di pausa utili a ricaricare il diaframma per nuove, grandiose risate.
Perché l’ironia demenziale che permea la pellicola è un qualcosa che va dai Power Rangers alla già citata trilogia di Raimi (della quale è palesemente debitrice, vista anche la mastodontica citazione attraverso l’Ash in gonnella con motosega innestata nel braccio monco), riuscendo a divertire nelle sue mille trovate esilaranti.
Gruppi di cattivi travestiti da ninja con tanto di nome in sovraimpressione e posa plastica con cui presentarsi al pubblico; uno stereotipo di yakuza che, nella sua esagerazione durante il combattimento finale, diventa teneramente irresistibile; e ancora reggiseni rotanti, braccia fritte in padella e personaggi di una cattiveria e malvagità così esasperata e accentuata da doversi alzare in piedi per un doveroso applauso.

Tante idee e invenzioni a livello visivo, quindi, sul quale Noboru Iguchi , con un buon uso della mdp, sembra far reggere totalmente il film, visto anche una certa leggerezza nel reparto dialogico, poco incisivuo sia per quanto riguarda i contenuti che per una colloquiale ironia. Se si tratti di scelta o di effettiva lacuna narrativa non ci è dato saperlo, ma una maggiore varietà anche a livello di scambi vocali avrebbe reso la pellicola un cult indimenticabile, così come lo sono stati le sue fonti d’ispirazione.

In questa maniera le parti parlate hanno bene o male la stessa importanza dei dialoghi in un film porno: fungono da semplice intermezzo che si speri duri il meno possibile. Le battaglie occupano la maggior parte del film, e non c’è pericolo di restare delusi, ma una maggiore attenzione allo script avrebbe dato una più soddisfacente completezza alla pellicola.
Si prova anche un certo senso di pesantezza, in questi punti morti in cui si parla troppo e non muore nessuno e insomma la filosofia del film va a farsi benedire, cosa che poteva essere evitata mantenendo un ritmo costante e sforbiciando qualche lagnoso minuto di troppo.
E visto che si parla di combattimenti, è d’uopo puntare un dito accusatorio che qua e là richiede spiegazioni. Nonostante l’occhio irriverente con cui giudicare il film, infatti, è impossibile non storcere il naso di fronte a coreografie di battaglia non sempre riuscitissime, dove il cast, probabilmente alle prime esperienze, si mostra incapace di dare la giusta dose di realismo che qui, nella sua esasperazione, è comunque richiesta. Pugni a vuoto e calci che si bloccano vistosi centimetri prima di colpire il bersaglio tolgono molti punti a un film che fa degli scontri il suo punto di forza.

Resta comunque uno splatter-movie spassoso e delirante, che, nonostante qualche scricchiolio ne impedisca la consacrazione, raggiunge vertici di assoluta epicità demenziale. Una visione goliardica se la merita sicuramente.

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