Regia: Takahiro Imamura
In un mondo devastato da continue guerre, i successori delle antiche scuole di arti marziali di Hokuto e Nanto si affrontano per il predominio del territorio. Tra questi, il malvagio autproclamatosi imperatore Souther, intento a costruire un mausoleo sul sangue dei suoi sudditi; il possente Raoul, che brama il dominio assoluto; l’ormai vecchio e malato Toki, che usa le sue capacità per curare le persone sofferenti; e Kenshiro, intenzionato a riportare la pace a suon di cazzotti.
Lustrarsi gli occhi nel vedere i muscoli di Kenshiro e fratteli combattenti al cinema è qualcosa che, per chiunque si aggiri sulla mia età e sia cresciuto con sovrabbondanti dosi di teste esplose, punti di pressione e «ua-tàà!» a non finire, è difficile descrivere a parole. Una sensazione che mescola ingenuità infantile e un certo nerdismo ossessivo, interi pomeriggi intenti a replicare le mosse di Hokuto e (soprattutto per me che abito in un paese con lo stesso grandioso nome) Nanto, e un senso di legame affettivo che, nonostante i tanti anni passati dalla visione dell’ultima puntata della serie animata, è risbocciato immediatamente.
Tutte caratteristiche, queste, disgraziatamente fondamentali per giudicare il primo dei cinque lungometraggi nipponici (tre film da un’ora e mezza più due oav da circa sessanta minuti) che formano il monumentale revival/rilettura delle leggendaria storia creata oltre vent’anni fa dal duo Buronson e Tetsuo Hara.
A vedere il lungometraggio, incentrato sulla sola saga di Souther, con gli occhi critci di oggi, il problema non sta neanche nella trama, che, imprezionsita da alcune gustose aggiunte scenostoriche (carrarmati e soldati sullo sfondo che dipingono la guerra), diventa ancora forse più originale nel suo mix di sci-fi post-apocalittica e arti marziali. È qualcosa più a livello globale, dovuto a una certa velocità di narrazione che incolla tra loro, in un taglia-e-cuci non sempre riuscito, capitoli che invece avrebbero necessitato di prologhi e spazi adeguati.
Tutti conoscono cosa spinga Souther e Raoul al dominio del mondo, così come la motivazione che smuove mani e gambe di Kenshiro e degli altri comprimari, eppure si sentiva il bisogno di un maggior approfondimento narrativo, che desse la giusta importanza a molti momenti clou (Shiba, il figlio di Shu, presentato troppo tardi; il primo scontro tra Ken e Souther).
D’altro canto, riassumere in novanta minuti l’intera saga di Souther non era impresa facile, e si apprezza il fattore stand alone dell’opera, che, grazie a un ottimo prologo, permette accessibilità anche ai non fan. Così come si approva l’innesto di due nuovi personaggi (i fratteli Souga e Reina, perfettamente integrati nella trama generale, e capaci di donare nuovi risvolti nelle già di per sé profonde psicologie di Raoul e Toki), mentre fa storcere il naso la mancanza del flashback riguardante l’infanzia di Souther, capitolo a mio avviso fondamentale per capire le motivazioni del suo odio.
Ma l’ostacolo più grosso è rappresentato da una regia disgustosamente televisiva: primi piani immobili, inquadrature fisse, riciclo di disegni e animazioni, pochissimo interesse nella ricerca della spettacolarizzazione. Certo, si tratta di un inconveniente che sparisce di fronte alla riproposizione pari pari di scene storiche e dall’alto tasso emotivo (il calcio volante e il drammatico dialogo tra Ken e Shu, il combattimento conclusivo tra Ken e Souther), con disegni che vanno dal bello al fantastico, nel totale rispetto della saga originale di Souther (in cui le tavole mostravano fisici scultorei particolareggiati in maniera spaventosa).
Stessa cosa non si può invece dire per le animazioni, soprattutto nei primi piani, spesso traballanti e pervase da una certa economia che perdura in tutto il lungometraggio.
Ultimi due punti deludenti sono il bassissimo tasso di splatter (poco sangue e soprattutto pochissime esplosioni di corpi e teste), e il doppiaggio, che, donando nuovi voci a tutti i personaggi (ottima quella di Souther e di Toki, ingiudicabili le altre), crea enormi crisi di pianto per il ricordo delle carismatiche voci storiche.
Un’opera poco più che sufficiente, quindi, ma dotata di una magia e di un fascino indescrivibile, grazie anche a un’epica colonna sonora sbalorditiva, che mescola schitarrate rock/metal con commoventi orchestrazioni hollywoodiane.
Può essere buona cosa concludere dicendo che la scommessa di portare un simile lungometraggio animato al cinema sta avendo un inaspettato successo in termini di pubblico pagante, fattore che può far ben sperare per l’arrivo nel Belpaese degli altri restanti episodi (già visti in lingua originale, e che presentano gli stessi alti e bassi de La Leggenda di Hokuto).
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