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Il gioco di Gerald (2017)

By Simone Corà | martedì 10 ottobre 2017 | 00:01

Mike Flanagan compie mezzo miracolo e si riguadagna tutta la fiducia perduta. Il gioco di Gerald: un film da vedere                     

Davo Mike Flanagan ormai per disperso, intrappolato da grosse produzioni che ne avevano del tutto snaturato il delicatissimo equilibrio mostrato nell’ottimo Oculus: tre film non brutti, per carità, ma incredibilmente mediocri e in fondo inutili distruggerebbero la carriera di chiunque, e invece lo ritrovo alle prese con un parziale cambio di rotta, fuori dalle mire dei big studios e con uno dei soggetti più difficili da filmare a cui si possa pensare.
In realtà non capisco bene la generale ondata di malumore che ha preceduto e sta in parte accompagnando Il gioco di Gerald: bollando anticipatamente come progetto impossibile, oppure azzerandone la complessa costruzione psicologica scambiandolo per un noioso film per la tv, purtroppo non c’è stato un onesto avvicinamento a un film sulla carta davvero difficile che non solo ne esce a testa alta, ma tutto sommato trionfa tenendosi stretta una fedeltà all’opera originaria e al kingverse che chiunque altro avrebbe facilmente scartato. Tanto di cappello a Flanagan.

La storia è risaputa, in fondo è uno di quei romanzi in cui chi bazzica il fantastico è inevitabilmente incappato, anche solo di striscio o per sentito dire. Un gioco sessuale che non finisce bene (be’, neanche inizia, a dirla tutta), e una donna che si ritrova incatenata al letto, in balia di un inconscio tormentato che emerge piano per creare uno sgradevole scenario da incubo, dove manifestazioni soprannaturali si accavallano a ricordi strazianti. Un libro di riflessioni personali e di profondi scavi nell’animo diventa quindi un film che mantiene inalterata la struttura di confronto tra passato e presente, ponendo Jesse al centro di un costante colloquio con il defunto Gerald, sé stessa e suo padre, veri e propri personaggi che si addensano in un intreccio di dialoghi verbosi, sicuramente vincolati dalla materia originale eppure diretti e precisi come un calcio nei denti.
Il gioco di Gerald è una prova pesante ma per fortuna non mortificante, laddove poteva sopraggiungere la nausea Flanagan riesce a mitigare con giusti contrappesi di fantastico e soprannaturalità, senza per questo svilire il significato delle umiliazioni subite da Jesse e l’eleganza del suo riscatto verso una figura maschile che l’ha sempre calpestata. Sequenze come la sofferenza durante l’eclissi di un rosso soffocante o soprattutto la forza di volontà per completare quella cosa con un pezzo di vetro, credo rimarranno impresse per parecchio, in particolare la seconda per realismo e insistenza grafica, con un’inquadratura che non si sposta di un millimetro e filma ogni istante di dolore.    
Ma se la figura femminile è chiaramente e giustamente spinta a un fondamentale primo piano concettuale, è incredibile la cura nei dettagli orrorifici che trasmettono lo smarrimento sperimentato da Jesse: le apparizioni del Moonlight Man si confondono con l’oscurità in un’ombra sformata, appena percettibile, tipica del dormiveglia in cui è così difficile distinguere la realtà dal sogno, e vengono applicate su uno strato di inquietudine che non viene mai, mai affossato dalle continue interruzioni della psiche di Jesse.
 

Molto si è detto dell’epilogo, una generosa porzione di vicenda che su carta aveva il vantaggio di creare uno di quei cerchi che solo King è in grado di rendere tanto perfetti e sicuri, mentre nel film andrebbe ad attaccarsi a una storia che in fondo già si conclude in un momento ben preciso, eppure questa scelta di Flanagan è il culmine di un’aderenza al materiale originale molto significativo, non solo per l’ultima, fondamentale frase che viene concessa a Jesse, ma soprattutto per il coraggio di completare fino in fondo e in ogni suo aspetto il passaggio da cellulosa a celluloide, che già toccava i numerosi riferimenti a Dolores Claiborne. Superflui, forse, ma preziosi, di sicuro caldi e benvoluti all’interno di un film vecchio stile, fuori dal tempo e alla stessa maniera piuttosto personale.  
Un film inaspettato, primo di un dittico kinghiano che Netflix ha in serbo per gli abbonati (1922, da un racconto contenuto in Notte buia, niente stelle, in uscita a fine ottobre), e splendido antipasto per l’ormai imminente IT.  

5 commenti:

  1. Vero quel finale funzionava meglio su carta che su schermo, ma dici bene, scelta coerente da parte di Flanagan che a quel punto ormai aveva già fatto un adattamento molto efficace, se non il suo film migliore, quello che lo ha rimesso in carreggiata dopo gli ultimi lavori non tutti a fuoco, diciamo così. Mi è piaciuto davvero molto e non me lo sarei aspettato, un lusso mentre aspettiamo il nuovo IT. Cheers!

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    1. Credo anch'io sia il suo film migliore, una prova difficile ma condotta benissimo, con grande maturità.

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  2. Eppure a me il finale è piaciuto molto anche nel film, con quella frase buttata ad annullare definitivamente Moonlight Man, Gerard e simpatico papà e la bellezza della Cugino che si allontana, alla faccia di tutto e tutti.
    Film bellissimo ma davvero ci sono stati e ancora ci sono malumori? Una fortuna non leggere le critiche!
    Il nuovo IT l'ho già vissuto, ora aspetto 1922, uno dei miei racconti preferiti *__*

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    1. Anche a me è piaciuto, consideravo soltanto la difficoltà e il coraggio di mantenere questo prologo nonostante possa sembrare "staccato"_ forse il film sarebbe stato più bello senza, ma in questa maniera è più completo e circolare, ed è una scelta da lodare.

      Sulle critiche, le leggi anche se non le vuoi tra feed e facebook, ma non ci do mai molto peso. IT lo aspetto al cinema, non ci vado mai, almeno una volta pago il biglietto per qualcosa di grosso. :)

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