E di come l’Indonesia insegni ancora una volta le
migliori mazzate cinematografiche
È abbastanza singolare che nei poli opposti del
pianeta escano più o meno simultaneamente due prodotti così distanti nell’approcciarsi
alle arti marziali. In occidente abbiamo Iron Fist, che si accontenta di occhieggiare stancamente a Hong Kong senza
neanche degnarsi di insegnare un po’ di tecnica al povero Finn Jones, mentre in
Indonesia quel graziosissimo tritacarne che è Iko Uwais torna sotto i
riflettori con un film dove le mazzate sono così furibonde e bestiali che
sembrano essere un mero pretesto per scatenare un mastodontico bagno di sangue.
Ma se il sottovalutare, e di conseguenza la
superficialità nel trattare la materia, è una costante a cui siamo ormai
abituati in America, è un vero piacere rimanere sconvolti dal carro armato
sanguinario che domina Headshot che,
pur con la sua follia fin troppo esaltata e spesso fuori fuoco, sbriciola certi
sciocchi pudori occidentali e ridicolizza le incompetenze mascherate da finta
professionalità.
Quindi, da una parte abbiamo chi imita male e
senza neanche fare uno sforzo per raggiungere un po’ di decenza, e dall’altra
abbiamo chi fa addirittura troppo ed è talmente convinto da non riuscire a
premere in tempo il freno. Non servono grossi calcoli per preferire
quest’ultima opzione, per una volta tanto in barba a misura, compostezza e
attenzione narrativa. Poi, insomma, se si vuole andare per il sottile forse non
è il caso di usare proprio Headshot
come cavia, ecco.
Seguito spirituale dei due The Raid, sebbene estremamente inferiore per estetica e ambizioni, Headshot è la terza prova dei Mo
Brothers dopo un interessante horror cannibale (Macabre) e un pessimo approccio
filosofico alla violenza (Killers) (ma non dimentichiamoci lo splendido Safe Haven, il cattivissimo corto
demoniaco firmato Timo Tjahjanto e Gareth Evans su V/H/S 2). Più asciutto del pasticcio precedente, e con una miglior
direzione, va detto che da un punto di vista narrativo (a cura del solo Timo) abbiamo
a che fare con un polpettone impreciso e noioso di vendette famigliari e
rispetti sentimentali che girano costantemente a vuoto. Ma è anche vero che,
come si diceva sopra, non siamo qui per seguire una storia, bensì per assistere
a una lunga sfilata di pugni sui denti, e su questo, gente, c’è da ingozzarsi fino
a scoppiare.
La violenza dei Mo Brothers è viscerale,
insistente, così esagerata da rivoltare lo stomaco, e non importa che Timo e Kimo
sbaglino il tiro in più di un’occasione amplificando il tutto senza motivo (le
infinite, infinite scene di pistolettate con gente che si spara per ore a un
centimetro dalla faccia), perché le sequenze di combattimento sono sempre
opprimenti e riescono a toccare alcuni tasti di un fastidio visivo davvero
incredibili. Evans e Uwais ci hanno già insegnato come il silat sia uno stile
rabbioso e furibondo, fatto di pugni, gomitate e ginocchiate di una brutalità
devastante, e i Mo Brothers non perdono tempo rincarando la dose a suon di ossa
spezzate, carne sventrata e prove al limite dell’umano, tanto che nelle scene
dell’assalto all’autobus e soprattutto nella terremotante odissea nel magazzino
si fatica addirittura a respirare.
Sarebbe inutile cercare qualcos’altro all’infuori
della violenza, Headshot non è
elegante, non è raffinato, non è personale, è un film rozzo e ingenuo che ha
dalla sua un vulcano di denti strappati e teste sfracellate sui muri, è un vero
treno in corsa che non si ferma davanti a nulla e che, anzi, utilizza la
violenza stessa per una propulsione di sangue e ferite senza fine, in una
gonfiatura, un’esasperazione quasi cartoonesca.
Si potrebbe quindi intendere il film come un
terreno di prova, una sorta di rodaggio per capire cosa possa funzionare (la
violenza, se non si era capito) e cosa no (bene o male tutto il resto). Ma in
generale Headshot è uno spasso e, a
spogliarlo di tutte le stanche parti narrate, non c’è un solo secondo di pausa
tra una schiena spezzata e una pugnalata nei fianchi. Possiamo ritenerci
contenti, perché no, in fondo era quello che volevamo. Ma temo che il gioco non
possa funzionare una seconda volta, ed è il caso che i fratellini aggiustino il
tiro, con la supervisione di Evans, prima di rimettersi al lavoro su The Night Comes for Us.
Me lo guardo domani sera, poi torno a dirti che ne penso ;)
RispondiEliminaCi conto!
EliminaIl problema principale di Headshot è che lo si guarda pensando fortissimo a The Raid :( Ne scriverò presto!
EliminaPurtroppo il confronto è naturale e inevitabile, ma lo sapevano benissimo anche i Mo Brothers, e nonostante questo si sono presi il rischione.
EliminaPiù che una riflessione è stata proprio una strana coincidenza (che poi, avrei dovuto mettere un accenno a Boyka, visto che è uscito nel frattempo, ma ho scritto la recensione un po' di tempo fa e me ne sono scordato).
RispondiEliminaComunque in linea di massima sì, distante mille anni luce dal cinema di Evans, ma una bella rullata di botte gustose, ché ci sta sempre bene :)
Le botte la fanno giustamente da padrone, ma non mi è dispiaciuto neanche il contorno (con gli ovvi limiti del caso). Meglio per certi versi anche di Boyka, più debole del precedente. Da un punto di vista tecnico, non so quanto di silat puro resti in Headshot, ma chissenefrega.
RispondiEliminaDa Iron Fist mi aspettavo tanto, il risultato è stato invece vedibile e altrettanto dimenticabile, peccato...
L
Ho trovato la narrazione molto, molto stanca: il film dura due ore ma avrebbe funzionato benissimo anche con trenta minuti in meno, tanto la storia è elementare e la si capisce al volo, non serviva cercare di approfondirla (male) in qualche maniera. Piuttosto lasciamo spazio solo alle botte, fanculo a dialoghi e personaggi.
EliminaD'accordo su Boyka, piacevole ma un po' deludente, forse aspettative troppo alte. Su Iron Fist non so, ho visto pezzi qua e là e i vari pareri pochi entusiasmanti me ne tengono ancora lontano.