Di bambole magiche che rubano l'anima e trasformano in killer mostruosi. Ma soprattutto di trapani che sfondano crani.
Qualche anno fa avevamo conosciuto Padraig Reynolds con Rites of Spring, un
piacevole intrattenimento rurale che prometteva spunti interessanti senza
riuscire a svilupparli appieno. Ed eccolo ritornare a distanza di molto tempo
con questo The Devil’s Dolls, che
nello stesso modo sembra promettere grandi cose per poi riuscirne a mantenerle
solo in piccola parte. Non è per forza un delitto, da tempo da queste parti è
bello anche sapersi accontentare, in fondo questo piccolo film limitato si
innalza proprio in quegli aspetti di atmosfera sanguinaria che era lecito
aspettarsi, ma quanto avrei goduto se Reynolds avesse continuato con la stessa
ferocia che ci investe nei primi minuti…
Trapani per fracassare le pareti, crani
squarciati, eruzioni di sangue: unite un po’ i puntini ed è facile immaginarsi
una scena iniziale così brutale da non lasciare respiro. Ed è proprio su
un’estetica gore che The Devil’s Dolls dà il suo meglio: gole
recise da cesoie, dolorose ferite slabbrate, coltelli piantati così a fondo da
vomitare sangue a non finire. Poche scene, ma rabbiose, insistite, ben
costruite. Pazzi fottuti che affettano, pugnalano, inseguono e tritano con il
solo scopo di fare quanto più male possibile, sporcando muri e ambienti con
parecchi litri di sangue artigianale. Tanta aggressività, e tutta fatta in
casa, si può chiedere di più?
Il resto è una storia innocua di bambole che
assorbono il male e contagiano chi le impugna, trasformando in killer spietati
chiunque abbia la sfortuna, o la stupidità, di toccarle, il tutto travestito da
thriller a tinte forti, con tanto di omicidi, indagine, brancolamenti nel buio
e twist finale.
A scrivere, assieme all’esordiente Danny Kolker,
un attore di lunga militanza televisiva come Christopher Wiehl, che pure interpreta
anche il poliziotto protagonista: la sua è una combo sbiadita che, nel
complesso, può essere rappresentativa dell’intero film: tante dritte curiose
(la geografia paludosa, il piacevole crescendo, il rapporto tra lui e la
compagna di squadra, quell’accenno di voodoo che male non fa) annegate però in
una generale normalità senza sorprese che riacquista colore solo nei momenti di violenza.
Ci si accontenta, si diceva, e infatti è tutto molto basilare, telefonato e non ci sono
guizzi particolari utili a scuotere dal tepore che si può innescare, ma va anche
detto che questa mediocrità è sviluppata con una incredibile serietà e diretta con un bel mestiere. La storia ha un suo sviluppo decoroso, i personaggi sono
inquadrati da adeguate vicende personali, e i dialoghi rimangono ancorati a una
situazione sempre rapida e sostenuta. Quindi niente ragazzini che urlano, si
ubriacano e seguono comportamenti a caso, ma adulti con problemi da adulti che
soffrono solo di una ahimè fin troppo accentuata banalità.
Buona la colonna sonora a base di pianoforte e
archi come poteva funzionare tra fine anni Novanta e inizio Duemila, notevoli i
saliscendi musicali piuttosto intensi. Solo la fotografia paralizza l’occhio
con i suoi colori stinti e quella patina da telenovela che schiaccia purtroppo
il film in una brutta collisione visiva.
Insomma, Devil’s
Dolls è quel film che si può guardare distrattamente mentre si cazzeggia
sul cellulare, degnandolo di maggior attenzione durante gli slanci improvvisi
di cattiveria, che sono sempre lunghi, coloriti e ispirati. L’horror di seconda
o terza fascia purtroppo è anche questo, e a tutti va data una possibilità, ma
speriamo che al terzo tentativo Reynolds possa finalmente mirare con maggior
precisione, o sarà difficile seguirne ancora uno stile promettente ma mai
davvero convincente.
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