Più o meno un film di fantasmi. Firmato Netflix.
C’erano una volta i film tv, sinonimo di
sciocchezza dimenticabile con cui riempire gli slot disponibili tra uno show e
un telefilm. Sull’argomento, giusto per fare un esempio, SyFy ne sa a pacchi, e
i suoi monster movie hanno fatto scuola: spesso non servono particolari
qualità, storia e regia hanno valenza relativa, l’importante è raggiungere il
minutaggio richiesto e foderarlo di pubblicità.
Nel corso degli ultimi anni, un po’ come è
successo per le serie tv, i canali via cavo hanno iniziato ad alzare il tiro:
il pubblico vuole qualità, e la qualità si paga. Ma se recentemente abbiamo
potuto vedere cose splendide come Behind the Candelabra e The Normal Heart,
fa un po’ tutto parte della rivoluzione che ha sdoganato la tv, conquistandosi
autori e attori provenienti dal cinema. Maggiori investimenti, maggior
competenza, maggior serietà.
E poi è arrivata Netflix.
Mi immagino Netflix come un blob insaziabile che
continua a gonfiarsi, allungando tentacoli su tutto il pianeta e tirando a sé
interi stati per divorarli senza masticare. Dopo le serie tv e i documentari,
il passo era inevitabile, e anche i film entrano nel suo mirino vorace, e a
partire da Beasts of No Nation è un
girovagare senza troppi paletti tra drammoni e commedie, per sfondare
finalmente nel genere prima con il fantascientifico ARQ (che non ho visto) e ora con questo horror dal titolo
abbastanza inusuale.
Oz Perkins, oltre a essere il figlio di Anthony,
è il regista dell’interessante The Blackcoat’s Daughter, un progetto strano, enigmatico, con delle iniezioni
di inquietudine bastardissime e una frammentazione che sottolineava già una
precisa personalità. Ne ho già parlato qualche mese fa, chi si ricorda alzi la mano. I Am the Pretty Thing That Lives in the House
si muove su coordinate simili, confermando quindi la narrazione estremamente
lenta ma perfezionando l’ermeticità dei contenuti.
In soldoni, Oz Perkins ha fatto il colpaccio, e
Netflix ci ha visto giusto ancora una volta.
I Am the Pretty Thing That Lives in the House
si svela come un complicato rompicapo romanzato, suddiviso in blocchi narrativi
che inquadrano precisi istanti, senza quindi dare quella che si potrebbe
definire come visione complessiva alla storia. È un mosaico a cui sembrano
mancare dei tasselli, assenza che però non influisce sulla comprensione della
vicenda, che proprio in virtù di queste privazioni guadagna in mistero e
ambiguità.
La storia è quella della vecchia Iris, in
passato famosa scrittrice horror ma ora succube di una decadenza senile che le
impedisce anche solo di stare in piedi. Lily ne è la nuova badante, ma non sarà
solo all’anziana donna che dovrà accudire, perché la casa è abitata da un
fantasma che non vuole in alcun modo andarsene.
Peculiarità del film è che, pur ponendo grande
importanza in una manciata di sequenze scary, non sfrutta lo spettro in facili
connotazioni malvage, ma lo identifica invece in una figura triste, sconfitta, che
non esiste solo in un secondo piano accessorio a veicolare la paura, ma è un
vero e proprio personaggio della vicenda. È lei a raccontare ciò che accade in
prima persona, confondendo presente e passato, alternando inconsciamente realtà
e fantasia con un vocabolario barocco e suadente che conferisce un’inaspettata
marcia in più al film.
I Am the Pretty Thing That Lives in the House non
vive della trama tracciata, invero piuttosto semplice e classica, bensì della
costruzione dei singoli momenti, dilatati all’inverosimile dalla regia di
Perkins. Lunghi, lunghissimi silenzi accompagnati da movimenti che sembrano al
rallentatore, persino gli spostamenti della camera sono rilassati, torpidi,
appena accennati.
Tutto serve a costruire un pachiderma alieno ma
elegantissimo, di una raffinatezza squisita e senza paragoni, con alcune
parentesi visive di grande classe (il fantasma che si sfalda, acquisendo forma)
e altre di una particolarissima angoscia (il fantasma che cammina
tranquillamente per casa e la telecamera che sembra non accorgersi, cercando in
un secondo momenti di ribeccarlo con i suoi agiti quasi immobili).
Molto ricercate le inquadrature, così come le
improvvise apparizioni, Perkins più che altro crea un monolito di continua
tensione: non ci sono sbalzi, non ci sono crescendo, tutto è una costante
progressione in un orrore sì distante e nobiliare, ma in grado di picchiare
duro quando serve, grazie anche a una colonna sonora di sospiri e gorgheggi che
lascia parecchio inquieti
Rimane un film ermetico e forse un po’ involuto,
non pienamente chiaro ma comunque estremamente affascinante, sembra quasi un
incubo che impedisce di gridare o fuggire a gambe levate, dove il tempo ha
condizioni a noi estranee, che non lascia che qualche traccia confusa ma
meravigliosamente spaventosa una volta svegliati.
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