Di marziani e famiglie da ricostruire in un esordio ahimè passato inosservato
Distinguersi è sempre più difficile e
spesso mi chiedo se agli autori, specie agli esordi, interessi realmente farlo,
o se trovino più piacevole e appassionante copiare, replicare, riproporre pari
pari quello che va per la maggiore.
Il found footage continua a funzionare
bene, la critica spara mitragliate senza sosta ma al pubblico più giovane piace
e quindi perché fermarsi, si sono ormai perse le tracce più sincere di quei
terrori e quelle inquietudini generate nei prototipi: prendiamo Oren Peli, che
per quanto sommerso di critiche per me ha fatto, a questo punto evidentemente
per pura fortuna, grandi cose con Paranormal Activity, è stato travolto dall’idiozia teen nel suo ultimo, rimandatissimo
e inguardabile Area 51, oppure Eduardo Sanchez si è messo bello comodo per girare a occhi chiusi e braccia incrociate
l’orribile Exists.
Un mockumentary si fa subito e veloce come
un saikebon, il suo essere al 100% fai-da-te con pochi mezzi e ancora meno
quattrini spinge bene o male chiunque anche solo a provarci, tanto cosa potrà
mai andare male?, in un caso o nell’altro se ne può sempre fare un secondo.
Io non lo so, magari è colpa mia, ma mi
sembra che il modello più recente di questo approccio all’horror sia fatto di
persone che urlano fortissimo per tutta la pellicola. Ancora prima della
telecamera traballante, o non so, dell’editing in post produzione che vanifica
abbastanza stupidamente qualsiasi verosimiglianza, per me la cosa peggio dei
mockumentary sono i protagonisti giovani che si gridano addosso cose inutili
perché evidentemente negli States l’accezione quotidiana per loro più credibile
è l’urlo, possibilmente seguito da risate schioccanti, discorsi poco sensati,
l’immancabile alcol e il preferito di tutti, lo scherzone con cui al
personaggio di turno vene fatto credere di essere seguito e/o visto da qualcuno
di misterioso e poi bum!, sorpresa, era uno dei suoi amici.
Il realismo che in principio si tentava di
evocare è stato piano piano sostituito da questa pochezza sociale probabilmente
perché gli autori stessi appartengono a una pochezza sociale che giocoforza
impedisce loro di accedere a contenuti un poco più interessanti: per fare un
found footage bastano una telecamera, quattro amici sbronzi e una qualche ombra
alla fine, tutto il resto lo si tira in piedi buttandoci in mezzo le cazzate
giornaliere, che per questa gente evidentemente corrisponde a festicciole, a
sixpack una dietro l’altro, discorsi scemi e urla fortissime.
Spesso ne escono cose improponibili e
dolorose per l’umanità (The Houses October Built) che dovrebbero rimanere in un circuito underground ben
pestate da grossi scarponi, ma ogni tanto i distributori chiudono gli occhi e
pescano a caso scommettendo su prodotti che, anche se possiedono una codifica
amatoriale fortissima, garantiscono perlomeno quella minima dignità: Hangar 10 e il suo bel 3.6 su imdb, di
cui ho parlato qualche tempo fa, Alien Abduction e il 4.8, oppure il qui presente Absence, seguito da un altrettanto consolatorio 4 spaccato, che pur
del 2013 trova piccolo sbocco soltanto adesso.
È difficile cercare una vera oggettività e
poter parlare bene dell’esordio di Jimmy Loweree, ci sono vari intoppi e troppe
carenze per riuscire a inquadrarlo come cinema vero e proprio, sono davvero
poche le qualità tecniche (fotografia e scelte effettistiche in primis) per
sollevarlo e difenderlo dal filmato delle vacanze che anch’io posso girare con
lo smartphone, manca proprio quell’impatto visivo con cui potersi in qualche
modo fidare della professionalità di questi esordienti, perché, diciamocelo,
qui non ci sono soldi e si fa quel si può, ci si arrangia alla meno peggio e ci
si fanno andar bene le scelte più elementari e ormai viste ovunque quando è
l’ora del soprannaturale, eppure è proprio grazie a queste voragini che
risaltano i pregi di un film che non ha una grande storia da offrire ma sa
giocarsela così bene che in più di un momento mi sono stupito per la grande
maturità espressa nei dialoghi e nelle personalità dei tre protagonisti.
Megan aspettava un bambino, ma da un
giorno all’altro, come suggerisce il titolo, la gravidanza scompare del tutto.
Un grande valore di Absence è che
Loweree non dirà mai, né tenterà di spiegare, come il nascituro sia stato
rapito dagli alieni: è una cosa che si sa, e che allo stesso tempo sanno tutti
(a un certo punto Evan dice che tutta la città sa bene cos’è successo, ne hanno
parlato persino giornali e tv), ma non serve informare chi guarda con chissà
quali tipi di spiegazioni perché l’evento è successo, viene costantemente
suggerito che il pargolo non c’è più e da qui si parte.
Per la precisione si va in una cabin in
the woods per qualche giorno di relax, partecipano la dolce Megan, suo fratello
Evan e il marito Frank, e nonostante tutto appaia esageratamente rudimentale, è
proprio per mezzo della scelta
documentaristica che Loweree può offrire dei personaggi molto realistici, che
parlano, scherzano e piangono con un livello di intensità e credibilità che
ormai raramente si trovano nei found footage.
La tristezza di Megan per la perdita del
figlio, la rabbia di Frank e la simpatia di Evan emergono in lunghe scene
dialogate dove si parla del più e del meno, si rievocano ricordi, si scherza sugli
eventi passati, si discute dell’ignoto e ci si arrabbia su quello che non si
sa: Absence si basa quasi
esclusivamente su segmenti di questo tipo, è un insieme di chiacchiere a vuoto
utili a edificare tre personalità ben distinte che reagiscono umanamente a un avvenimento
inspiegabile, e proprio questo logorroico parlarsi addosso giustifica la
presenza della telecamera per permettere a Evan di imprimere questo momento
storico dove il loro legame è in teoria pronto a essere rafforzato dopo il
grande trauma.
Absence dura
ottanta minuti scarsi e, per quanto possa premiare questa scelta, i tre
protagonisti parlano davvero tanto, ne consegue una staticità amplificata che,
nella seconda metà, quando iniziano a capitare i primi fatti strani e si
vorrebbe sapere qualcosa di più della storia, comporta anche un po’ di noia o
quantomeno una certa pesantezza perché il meccanismo suggerisce l’inizio di una
parentesi-ricordo o di un momento di dialogo e quindi già si sa che si deve
aspettare prima di avere di nuovo a che fare con gli alieni.
Che poi, in verità, hanno davvero uno
spazio limitato, in questi momenti subentrano tutte le enormi difficoltà
tecniche che costringono Loweree ad accontentarsi di un paio di levitazioni
abbastanza insulse e incolori, qualche luce matta che fa gli sghiribizzi e un
manciata di suoni strani, è davvero tutto qua ed è davvero molto poco, un molto
poco che se si può sopportare non faccia alcun tipo di paura (sebbene Bobcat Goldhtwait
sia riuscito a terrorizzarmi con ancora meno soldi e meno risorse con il
delizioso Willow Creek) si fa ben più
fatica ad accettare per mancanza di invenzioni o idee che sgancino la classica
abduction dai suoi standard più classici (e in questo caso incredibilmente poveri,
del tipo che ogni volta la telecamera arriva di corsa a inquadrare le cose guardacaso
quando il più bello è appena uscito di scena) che tutti conosciamo.
È quindi questo che impedisce ad Absence
di ritagliarsi quel posto che in molte occasioni meriterebbe con orgoglio, e
temo purtroppo che sia un macigno bello pesante da smuovere perché per
arrivarci bisogna comunque superare quella che per molti, è comprensibile, può
essere considerata un’intricata foresta di rovi. Ma per chi si munirà di cesoie
ben affilate e non temerà il gran lavoro da fare, potrebbe essere una buona
sorpresa.
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