Animali mutanti OVUNQUE compiono una
strage di quel
Sto traslocando e scrivo così a singhiozzi
che non riesco a scrivere un post per dire che scrivo a singhiozzi. Non ho
ancora internet e devo rubare qualche briciola al lavoro, ma mi sento a disagio
e non ho la comodità di casetta bella. C’è ancora parecchia confusione ma ci
sto imparando a vivere, fare i lavori è faticoso e così devo riposarmi spesso
perché gli scrittori hanno fisici gracilini, per di più il divano è molto più
comodo di quello che avevo prima e leggere è di conseguenza esperienza ancora
migliore.
Parlo poco di libri e boh mi dispiace,
ogni tanto mi riprometto di farlo e quando leggo qualcosa di buono accumulo
idee e parole in testa per poi trascriverle ma alla fine rimando sempre e
rincorro alla svelta il primo film horror sconosciuto che la rete rende
disponibile. È capitato poi che un lettore, e avere lettori silenziosi è cosa bellissima
di cui mi stupisco sempre, evidentemente esistono davvero e non posso che
commuovermi, mi scriva “senti un po’, ciccio, ma libri no, eh?”, e cavolo, sì, una
volta lo facevo , quindi eccomi qua a rimediare.
Mi piacciono molto i paperback, non quelli
italiani (o almeno non quelli odierni, adoro gli Urania anni Novanta), parlo in
generale di quelli inglesi e americani, e nella guerra tra carta e digitale ho
paura che se qualcuno ci infilasse in mezzo i tascabili economici, con le loro
paginette trasparenti e puzzolenti e la copertina che si arriccia subito, io
sceglierei solo questi: credo siano belli da sfogliare e da impugnare, poi, boh,
non è che ci sia altro, ed è una cosa strana perché non mi capita con gli altri
libri, ai quali continuo a preferire le versioni elettroniche.
The Montauk Monster è il primo mass market di Hunter Shea, autore
yankee, ha una lunga lista di titoli alle spalle con cui si è ritagliato un
buono spazio e se adesso ha firmato per Kensington Books significa ottime cose
per il futuro. Futuro suo perché a pubblico e money non si dice mai di no, ma
soprattutto futuro nostro, o almeno mio, perché l’orrore di mr Shea è un
qualcosa di così radicato negli eighties che quasi mi ha fatto emozionare: un
horror tascabile può essere etichettato facilmente in questa maniera, una
storiaccia di mostri e violenza, quella purissima serie b schietta e brutale di
cui io non posso fare a meno, ma è ben altra cosa riuscire a tenere botta per due
o trecento pagine scrivendo di quei mostri e quella violenza che odorano di
certa polvere, scrostando la muffa e dando quella pulita a fondo che rende
tutto migliore.
Qui abbiamo a che fare, a partire da fatti ehm realmente accaduti, con esperimenti
governativi, virus che si spargono senza pietà e divorano l’organismo, animali
modificati geneticamente e incrociati con altri animali per ottenere bestie
ferocissime da impiegare in guerra, poliziotti buoni e militari cattivi,
piccole cittadine dove tutti conoscono tutti e, be’, così tanto, tanto sangue
che a tratti sembra che il romanzo stia sgocciolando per terra.
In occasioni come queste non è mai la
storia a convincere, è giocoforza un concentrato di qualsiasi cosa si possa
aver visto e letto negli ultimi vent’anni: il bello lo si ottiene nei dettagli,
nelle sfumature e in generale nell’esperienza con cui certi autori si
costruiscono carriere chilometriche e ricchissime di titoli che non mirano in
alcun modo a rivoluzionare l’horror ma che mantengono una media quasi sempre
alta. Dai vari moderni come Brian Keene, Bentley Little ed Edward Lee, o dagli
inossidabili del passato come Brian Lumley, John Saul e Richard Laymon, quei
macinaparole inossidabili in grado di vomitare due o tre romanzi all’anno, ci
si aspettano storie compatte, personaggi solidi e atmosfere sparse con
maestria, e tre volte su quattro si può andare sul sicuro, consapevoli che
capita raramente di fallire l’obiettivo.
Per Hunter Shea il discorso è simile e,
pur con alcune mancanze che gli vietano ancora uno score perfetto, ci sono
tutti i numeri per poter fare le cose in grande e poter uscire sempre vincitore
da un confronto con i cliché: protagonisti simpatici nel giro di qualche
parola, dialoghi secchi ed efficaci che arrivano subito al dunque, un plot
semplice e sicuro ma gestito con un ritmo invidiabile, un’atmosfera nostalgica
nel rievocare i sapori di un immaginario che rimarrà sempre fondamentale, e
quella virgola di personalità utile ad annullarne i vari difetti.
Se infatti non piace poi moltissimo l’eccessiva
serietà della vicenda, che sfigura lievemente una progressione narrativa fin
troppo compatta e scolastica, a stupire e a tenere insieme il quadro ci pensano
un body count sconvolgente e un livello di gore sempre altissimo ma che, a
braccetto con la totale mancanza di ironia, scansa qualsiasi esagerazione e
crea un’eruzione di squartamenti ed esplosioni di viscere puntali e
impeccabili.
Corpi che a causa del batterio killer
esplodono dopo aver spruzzato litri di sangue in geyser senza fine, i morsi
delle bestie che strappano e mutilano sempre con enorme accuratezza anatomica, tra
mannaiate in mezzo alla fronte e decapitazioni le uccisioni sono costantemente atroci,
le strade letteralmente sono ricoperte di cadaveri spappolati… non c’è fine al
fiume di ultraviolenza che si sa però distinguere per la purezza di cui è
composta: nessuna depravazione, nessuna morbosità, solo semplice, variopinto e
ingegnoso splatter.
Il resto è un bel rincorrersi di scontri
armati, persone che fuggono e laboratori segreti svelati da decine di punti di
vista di personaggi spesso anche usa e getta, utili ad arricchire il contesto
con qualche informazione per poi spargere il cervello contro qualche muro. I
due eroi hanno la giusta caratterizzazione, magari lui è fin troppo squadrato
dal cliché del good cop ma in fondo ha carattere e la sua ingenuità ha un che
di tenero, mentre lei, sicuramente comoda per certi risvolti, è grintosa
nonostante la disabilità che porta senza che questa ne sovrasti la personalità:
insieme formano la classica coppia dove l’uno colma le lacune dell’altra e
viceversa, e trainano un bel cast di quelle che in fondo sono solo brave
persone che dispiace parecchio vedere morire.
Shea scrive bene, è incisivo e rapido (e
il suo inglese è molto scorrevole e intuitivo): a una simile lettura non si può
richiedere altro. Chiaro, la probabile imposizione editoriale di toccare le 350
cartelle gonfia fin troppo la vicenda di personaggi extra, la loro accessorietà
funziona fino a un certo punto e infatti anche la carne da macello, per quanto
buona, dopo un po’ inizia a puzzare. Ma non è un delitto e ci si può convivere,
come si può resistere al calo qualitativo man mano che il mistero inizia a
trovare un perché proprio in virtù della bravura di Shea nel piazzare certe
scudisciate laddove fanno più male (su tutto, la parte conclusiva in barca, una
cinghiata ).
Per me è buon autore da tenere d’occhio, i
margini di miglioramento sono evidenti e promettono grandi sviluppi, così come
sono evidenti certi limiti che però sono anche la forza stessa dei suoi lavori.
Tortures of the Damned esce fra un
paio di mesi, vedremo dopo i mostri radioattivi e le varie haunted houses del
passato come se la caverà con apocalissi e cannibali.
Lista della spesa
Con The Montauk Monster Shea ha scritto in tutto otto romanzi, più vari racconti e raccontini. Vediamo un po’ le cose più curiose che offre il suo scaffale e cosa potrei mettere nel carrello prossimamente, tutto pubblicato da Samhain.
SwampMonster Massacre: è il romanzo che più mi ispira anche se la copertina
così tremenda me ne ha allontanato fino a questo momento. Scimmie giganti
assassine, paludi inospitali, vari riferimenti pubblicitari a gore, gore e
ancora gore, l’idea è quindi quella di un old school horror proprio come The Montauk Monster. Si può chiedere di più?
Hell Hole:
un western horror dove le leggende sulle ricchezze contenute in una miniera
abbandonata fanno quasi passare in secondo piano altre leggende, ben più
concrete, sulle entità che vivono nascoste nel buio. L’ambientazione è
succulenta e l’idea di un bel mostrone rintanato in una miniera richiamo anche
certi sotterranei lovecraftiani che non smettono mai di incuriosirmi. Mi comprate con poco.
Island of the Forbidden: qui abbiamo a che fare con un horror che richiama
ancora certo Lovecraft ma anche una sorta di tradizione legata ai fantasmi e
agli orrori sepolti nel passato. Un’isola dove è stato compiuto un massacro,
una famiglia strana e inaccessibile, un’estranea che entra nella loro vita… gli ingredienti sono come sempre ben riscaldati ma il profumo che esce dal pentolone mette appetito, eh.
Poi, per esempio qui, ci sono dei racconti gratis, giusto per farsi un'idea, ché poi tornate a raccontarmi.
Beh, accontentare un lettore silenzioso nonostante il momento di trambusto personale?
RispondiEliminaSentiti ringraziamenti :-)
eh, ma hai detto giusto, devo impegnarmi e scrivere di più :)
EliminaFirst time here at your blog and wanted to say i enjoyed reading this.
RispondiElimina