E di quei tempi in cui quando si stava male erano davvero cazzi
Avete presente quei punti fissi che
definiscono un genere? Quei pali di frassino ai quali è impossibile girare
attorno perché funzionano come una calamita e attirano con una forza ché
levati, quelle comfort zone inevitabili che, mi sono fatto ultimamente un’idea,
inquadrano meravigliosamente e spietatamente le qualità di un autore: ecco, in
questi mesi ho inscatolato una serie di film che mostrano cosa sia il
confronto, spesso non sono grandi pellicole e, salvo qualche raro caso, è più facile
si tratti di istantanee cinematografiche che sopravvivono, boh, quelle
ventiquattr’ore di permanenza nelle home dei portali torrent per poi piombare
nel grande girone infernale dei dimenticati, ma sono sempre prove dignitose che
fotografano una diversa distinzione, magari anche incidentale eppure così
piacevole da fare la differenza. Sfidare i cliché pare essere battaglia persa
in partenza, però, ehi, chi ne esce vittorioso merita per me molta attenzione.
Nell’agosto dell’anno scorso Cinematix,
che è la spalla più violenta e sporcacciona della HBO, presenta The Knick, un dramma ospedaliero
ambientato a fine ottocento e diretto da Steven Soderbergh. Chiaro che, con un
nome simile a trainare il progetto, svanisce nelle retrovie ciò che solitamente
in tv ha maggior valore: mentre la regia appare secondaria, limitandosi a fare
bene e distinguendosi solo in qualche occasione per idee e trovate che si fanno
notare, è la penna dello showrunner a tenere le redini, i suoi equilibri e la
sua gestione decidono infatti i ritmi, le pause e le ripartenze che in fin dei
conti determinano la serialità di un prodotto.
Ecco, i creatori di The Knick sono Jack Amiel e Michael Bagler, e stando a imdb hanno
una carriera a base di film che piacciono a mia mamma, tipo commedie scemette e
cose di buonismo familiare. Certo, dietro c’è la HBO e io me la immagino come
una massa tentacolare che insegna a scrivere dialoghi a suon di scosse
elettriche e uncinate sulla schiena, però è anche vero che una base di partenza
come questa, alla quale si può aggiungere il facile pregiudizio di un
procedurale ospedaliero come qualsiasi altro, non fa gran pubblicità, e allora
è giusto che intervengano Soderbergh e la sua regia a spianare la strada: i
dieci episodi portano tutti la sua firma e la visione è uno spettacolo che
forse non si è mai visto in tv, nemmeno nei momenti più ispirati e
virtuosistici con cui Asylum, Banshee e magari anche qualcosa di Spartacus infrangevano gli standard per
le prime volte.
Qui vengono dispensate classe ed eleganza per
tutti i 600 minuti di durata, non c’è una pausa nelle invenzioni, nelle
inquadrature sbilenche, negli angoli impossibili, negli ombrosi piano sequenza
che giocano con le prospettive, nella fantasia dei dettagli ultragore che
compongono le varie dissezioni anatomiche: The
Knick è una meraviglia da vedere. Qualcuno aveva dei dubbi? Non credo.
Se ho recuperato la serie solo poco tempo
fa il motivo è dovuto al punto interrogativo di questi due sceneggiatori e
dalla palese sicurezza di una visività accecante a stordire il classico script
elementare.
Ma quello in cui Amiel e Bagler trionfano
inaspettatamente è proprio nel parallelo con gli stereotipi della serialità:
tutto ciò che una serie tv, non per forza recente, anzi, parlo proprio della
serialità nella sua concezione storica, necessita per durare nel tempo è ben
visibile in The Knick, e non riguarda
quelle caratteristiche indispensabili fatte di personaggi carismatici e di
cliffhanger ben progettati, si tratta esclusivamente dell’abc della televisione,
visto mille volte ma che, alla milleunesima, scintilla come nessuno l’avesse
mai fatto prima.
Un dottore al limite del genio, burbero e con
una dipendenza? Check. Un collega altrettanto brillante ma nero e quindi
schifato da tutti? Check. La rivalità che si crea tra i due che poi si
trasforma in alleanza e amicizia? Check. Un terzo dottore belloccio, arrivista
e prepotente che vomita merda ovunque? Check. Un’infermiera dolce e graziosa
sedotta però dal fascino distruttivo del protagonista? Check. La figlia del
boss dell’ospedale che è donna forte e orgogliosa nel cercare di emergere da
una società sgradevolmente maschile? Check.
Si può andare avanti parecchio, i topoi non solo sono rispettati nella loro
interezza, sono sfruttati dal primo all’ultimo, e dubito qui dentro ci siano
idee che non provengono da qualsiasi altra cosa, anzi, la parola d’ordine
dev’essere stata qualcosa tipo “pigliamo qua e là a caso”, eppure Amiel e
Bagler, che firmano quasi tutte le sceneggiature, e le firmano davvero bene, compiono
un miracolo nel rinfrescare e riverniciare queste ossature, le ridisegnano e le
solidificano con materiale più moderno e fresco, le modellano in un edificio
narrativo che pare, o meglio è, squisitamente attuale.
È un merito che non sarebbe giusto dare
soltanto a loro, si lavora di squadra e molta parte la fa un cast eccezionale,
a partire da un Clive Owen minaccioso e febbricitante coadiuvato dalla
raffinatezza di uno stratosferico André Holland: la loro competizione è sempre
armoniosa e utile allo scorrimento narrativo, sorregge dieci episodi che non vanno
mai oltre la sfera del prevedibile ma nel mestiere con cui sono eretti brillano
di una scrittura chirurgica, che pone tasselli con maestria e li fissa con il
miglior collante disponibile. La coralità che presto prende il sopravvento è
infatti genuina, ogni storia trova espressione per mezzo delle personalità
coinvolte, dalla caccia alla portatrice di malattie alla suora che pratica
aborti, dai guai con la Mafia all’inevitabile ingestione di razzismo, in una
bolgia di bordelli, sporcizia, morte, tangenti e scienza retrò, The Knick è sempre grintoso e
affascinante, si muove in scenari bisunti e scuri ballando su azzardati e
anacronistici ma straordinari tappeti elettronici che esaltano ombre e sguardi
di sfida riponendo l’episodicità in un cassetto e preferendo per fortuna
un’ottima orizzontalità che si chiude furbetta ma intelligente nel caso non
fosse stata concessa una seconda serie.
Il resto è un incantevole spargimento di
sangue, braccia che scavano nei corpi, dita che premono organi, macchinari
antiquati che mutilano arti, ingegneria primitiva che sventra vite, macellate
senza tanti ripensamenti e sperimentazione alla cieca che comporta parecchia,
finissima paura, ovvero tutto ciò che piace al midiano e che, in questi ultimi
tempi di sensibilità horror e ferrea attenzione al genere, si permette e mi
permetto di divorare senza tanto andare alla ricerca di qualche
soprannaturalità.
Mega sorpresa dell’anno scorso, ora tocca
aspettare ancora troppo per agosto ma pazienza, pregustare tanta bontà può solo
arricchire la seconda stagione.
Quindi è da recuperare.
RispondiEliminaIo ero scettico, stavo ancora aspettando.
Recupera presto, ero scettico quanto te e quasi mi perdevo questo gran vedere :-D
Eliminalo visto, prima in italiano, poi in lingua originale...
RispondiEliminaClive voto 12mila
Vero, lui è un portento, personaggio colossale e imponente, traina quasi da solo la serie, ma anche tutti gli altri sono da applausi :)
EliminaMa penza te... recupero!
RispondiEliminaVai, recupera e poi dimmi :)
EliminaNon so se lo hai letto, ma tempo fa dedicai un lungo articolo alla storia della rinoplastica. Il metodo rappresentato nella foto fu elaborato a Tropea nel '500:
RispondiEliminahttp://zweilawyer.com/2014/04/24/amputazione-del-naso-e-rinoplastica-una-storia-millenaria/
Ah, interessante (da te lurko le cose di botte e mazzate storiche, il resto metto sempre da parte da leggere prima o poi insieme a un milione di cose che però poi non riesco mai... )
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