The Babadook (2014)

By Simone Corà | venerdì 28 novembre 2014 | 00:05

Dall'Australia l'horror più chiacchierato del momento. Potevo non parlarne?                                                                   


Ho letto questo commento su imdb e a un primo momento ho riso molto. Poi però mi sono sentito un poco in colpa. Ne prendo la frase più significativa, i pochi a cui ancora manca la visione non credo abbiano indizi sufficienti per rovinarsela, agli altri magari scapperà una risata e poi ci ritroveremo a scuotere la testa amareggiati:
The ending made no real sense. You'll never get rid of the Babadook unless you scream really loud at it. The final basement scene was never explained and seemed trite.

È inevitabile che un certo tipo di film, in grado di sventrare la tradizione pur maneggiando gli stessi mezzi a disposizione di tutti, possa subire un’inadeguata comprensione che ne dimezza la straordinaria portata gettandolo anche involontariamente nel caos primordiale dove stagnano tanti colleghi, è il prezzo da pagare per una visione sopraffina che non a tutti può apparire così lampante, eppure dispiace che una simile indifferenza, magari anche minima e di relativa importanza, possa colpire un caso come The Babadook.

L’esordio di Jennifer Kent vive del simbolismo che mette in scena, è questo ad astrarlo e a renderlo fondamentale in una scena odierna molto assetata, ma anche scuoiandolo del suo significato intrinseco, provando a svuotarlo di ciò che nasconde in quella cantina, la potenza visiva e l’assalto sensoriale non vengono mai, mai meno, e questo è fattore prodigioso, perché appare chiaro come una regista e sceneggiatrice al suo primo lavoro sia splendidamente riuscita a conciliare le due anime del film evitando di asservirne l’una all’altra e di preferire quindi un pubblico rispetto a un altro. Afferrare la visione allegorica che traina il disagio della povera Amelia non è infatti indispensabile per apprezzarne la storia, una certa osservazione intellettuale con cui giudicare lo spettatore medio è comunque evitata grazie e una straordinaria e originale messa in scena.
Chiaro che quel commento è un estratto tra decine di felicitazione e applausi e non è un campione significativo del gradimento ricevuto, ma è semplice scusante per dire quanto The Babadook sia una visione indispensabile e, come Antiviral un paio d’anni fa per la fantascienza (guarda caso un altro esordio), destinato, o almeno si spera, a fare la Storia.


Già parlo poco di mio, non amo quindi ripetere le cose, faccenda che ha ancora meno valore in internet e nella blogosfera. Ad analizzare The Babadook ci pensano già parecchie recensioni (qui, qui, qui e qui, giusto per cliccare le prime), sono tutte migliori e più articolare della mia e non vedrei quindi motivo di dare in pasto a Google anche le mie parole con il rischio altissimo di ribadire gli stessi concetti. 
Da quando ho rimesso in moto Midian provo a proporre quello che vorrei leggere in un portale, non ho in gran simpatia l’horror mainstream e non ho alcun interesse a scriverne, ma ho a cuore le sorti di una certa scena indipendente, più o meno piccola a seconda di dove la si voglia inquadrare, e su questa mi voglio concentrare. E The Babadook è un’opera di cui credo sia importante non smettere di parlare, da qui in avanti dovrebbe sempre essere presa in esame nel tentativo non di superarla o di fare meglio ma per avere un esempio di come sia possibile fare questo tipo di cinema horror, nel 2014, partendo dalla più antica e forse banale della paure: quella del babau.

Prima ancora che la narrazione annichilisca con i suoi riferimenti, prima ancora che la storia affondi certi suoi artigli, e sicuramente prima che il soprannaturale scandisca i suoi ruggiti spettrali, in pochi scene Jennifer Kent ha realizzato la visione più soffocante e senza appigli a cui abbia mai assistito. Le difficoltà familiari di Amelia, vedova, con un figlio che sembra affetto da importanti disturbi comportamentali, sono spalmate su un montaggio opprimente che non lascia respiro, taglia ogni sequenza con una mannaia affilatissima e scarnifica la visione con un’essenzialità estremamente angosciante. Non ci sono pause, neanche un secondo, i problemi di Amelia emergono tra gli strilli inspiegabili e gli atteggiamenti instabili di un bambino la cui psicologia è sempre indefinita e su quel filo che rende impossibile capire se quanto succede abbia ragione soprannaturale o meramente psichiatrica. E quindi diventa automatico provare l’asfissia che Amelia stessa guadagna da una vita che le sta sfuggendo e di cui non riesce più a tenere alcuna redine, un’esistenza che, priva di veri legami, con un lavoro snervante e inappagante come operatrice in un ospizio e con quel figlio che pare divorarne ogni lacrima tra saliscendi comportamentali e accenni bipolarici, la sta portando sull’orlo di qualcosa che lei stessa non conosce. O forse conosce fin troppo bene.


Il mio lavoro mi porta a conoscere bene certe realtà familiari dove l’incapacità, o meglio, un’impossibilità di vivere una vita come oggi la si può definire normale, conduce a ricadute depressive e a stati psicologici di disagio di complessa gestione. Sono tanti i fattori, anche contraddittori, che coincidono e disgraziatamente agevolano il formarsi di croste di rabbia repressa che non si possono raschiare via: il sentirsi inadeguato alla cura di un famigliare vicino, il non accettare questa involontaria mancanza e di conseguenza mostrarsi orgogliosi nel negare un aiuto, il sentirsi escluso dal circolo di amici e conoscenti, e la difficoltà stessa nel capire il problema e oggettivizzarlo quanto più possibile per rendersi conto che da soli non se ne può venire a capo.
Amelia è tutto questo, e il suo è un comportamento aggravato da ulteriori disagi che, come nella vita reale, sono conseguenti alla difficoltà o sono loro stessi a innescarla. L’essere rimasta vedova in giovane età è condizione che non ha mai accettato nonostante il tempo trascorso, le problematiche del figlio sono ormai fuori dal suo controllo e non le resta che mandare giù, tenere dentro ogni cosa perché non ha alcuna via d’uscita (una spalla amica dove appoggiarsi, un orecchio a cui confessarsi), fino a quando lei stessa non si tramuta in sfogo, che, ovviamente, va a colpire quello che viene identificato come problema.  

L’antropomorfizzazione dell’orrore, con un babau dall’estetica stilizzata e cartoonesca che prende vita da un inquietante libro per bambini, poteva essere strumento banale per sorreggere addirittura un intero film, e invece, pur non toccando particolari vette di paura, il disagio sprigionato da questa figura snervante che si compone delle principali vie orrorifiche (porte che si aprono piano, poco rispetto delle leggi fisiche, apparizioni improvvise, movimenti scattosi, quel molare che si stacca) è vivo e consistente, plasmando un’atmosfera terribile fatta di colori spenti e grigi che prolungano la sofferenza.
Horror e non horror si divorano a vicenda e impediscono con una meravigliosa narrazione di prevalere l’uno sull’altro, la stabilità modellata dalla Kent è meticolosa e sostenuta da dettagli tanto piccoli quanto vitali: i primi piani sostenuti, i capelli di Amelia in un disumano disordine, le espressioni di Robbie che oscillano tra il disturbante e una delicatissima dolcezza, il gracchiare del Babadook e le sue fattezze stesse.

Cinema prezioso e misurato col contagocce, visione fondamentale.

17 commenti:

  1. dici bene nel finale della tua bellissima recensione. Visione fondamentale se non necessaria....uh piccola segnalazione di servizio: quando segnali le altre rece non hai messo il link....

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    1. Ma che rimbambito, eppure mi sembrava proprio di averli inseriti. Ora risolt, grazie. :-P

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  2. Gran pezzo, Simone.
    E, a quanto pare, un film che devo recuperare prima di subito.

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    1. Certo, è un film veramente molto, molto importante per la scena, c'è tecnica, c'è scrittura, c'è gestione del ritmo, c'è omaggio al classico e c'è innovazione, oltre a una profondità di una potenza indescrivibile :)

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  3. Io continuo a trovare quel finale un po' buttato via. Per due motivi principali: 1) il prendere forma del babadook che da metaforico diventa reale con tutti quei trucchetti da cinema horror che mi snervano. 2) Il poco approfondimento del finale stesso, che arriva improvviso e veloce. Avrei preferito 15 minuti in più per andare affondo in maniera graduale.

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    1. Più ci penso e più per me è perfetto, perché rimane pur sempre film di natura horror che però offre molto, molto di più a una lettura che poi non è neanche così nascosta. A me è sembrato che il suo "soprannaturale" ne esca in questa maniera addirittura più forte, e per me quella scena finale è esemplare sotto tutti i punti di vista :)

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  4. Mi fa tenerezza davvero il commento che hai trovato su Imdb. Per fortuna il film sta giustamente avendo un successo incredibile, sia qui che all'estero e spero che presto possa arrivare sul grande schermo in Italia perché è l'horror più bello della stagione. Anche se non so quanto verrà apprezzato dal pubblico adolescente...
    P.S.
    Anche io trovo la scena finale assolutamente perfetta!!!

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    1. Vero, fa tenerezza, è che ho davvero pensato per un secondo che quel finale meraviglioso potesse essere "svisto" e non apprezzato davvero in pieno, che secondo me è chiusura esemplare e significativa di tutto il film. :)

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  5. Visto anch' io, e l' ho trovato abbastanza piacevole, anche se sono sicuro che dal punto di vista tecnico si sarebbe potuto fare qualcosina in più..

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    1. Per me il lato tecnico, considerando anche che si tratta di un esordio, è molto, molto alto, regia e montaggio sono mostruosi, la sceneggiatura è meravigliosamente essenziale nel dare le informazioni necessari con dialoghi precisi, e le apparizioni del Babadook sono centellinate e fantasiose. :)

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  6. "Il mio lavoro mi porta a conoscere bene certe realtà familiari dove l’incapacità, o meglio, un’impossibilità di vivere una vita come oggi la si può definire normale, conduce a ricadute depressive e a stati psicologici di disagio di complessa gestione". Mi ha colpito questa tua frase, in questa tua bella, toccante recensione. Anch'io lavoro, come sai (credo) prevalentemente con adolescenti "disturbati", cioè provenienti da famiglie essenzialmente disfunzionali. Ma anche tu lavori in questo ambito? Non lo sapevo. In ogni caso, ora mi tocca vedere (senz'altro) il film, anche perchè ne parlano un pò tutti, ma soprattutto dopo aver letto la tua recensione. A presto! (poi ne scrivo anch'io).

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  7. P.S. Un altro film che ti consiglio di vedere (sull'adolescenza), è "Se chiudo gli occhi non sono più qui", di Vittorio Moroni (che sto visionando in questi giorni) . 2013. Molto ben reso il tema dell'adolescenza, epoca difficile e ancor più difficile ai giorni nostri.

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    1. Sì, so bene del tuo lavoro e delle tue conoscenze, è molto bello se non unico il modo in cui le "sfrutti" per le tue recensioni. Io invece lavoro in una comunità di disabili con disturbi del comportamento, l'età è varia, dalla tarda adolescenza all'adultità, quindi un po' le materie sono le stesse. :)

      Grazie per la dritta, il film non lo conoscevo e prima o poi lo recupero :)

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    2. Ah, perbacco, siamo dunque colleghi, praticamente. Anch'io, ti dirò, ho lavorato dieci anni in ospedale psichiatrico e comunità terapeutiche affini, prima di lavorare privatamente e come consulente (sono vecchio, ahimè...). Hai quindi, ancora di più, tutta (TUTTA) la mia solidarietà.

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  8. la fortuna di non saper l'inglese, o altre lingue, è che mi perdo i commenti alla cazzo di cane di altra provenienza
    Codesto film mi interessa assai, ho notato che piace ai blogger che seguo con empatia e simpatia e quindi, andrò a vederlo

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    1. Bravo, è un film che merita immensamente e su cui, tra l'altro, si può scrivere moltissimo :)

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