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Hungry Ghost Ritual (2014)

By Simone Corà | giovedì 30 ottobre 2014 | 08:00

Fantasmi, possessioni, magia nera, superstizioni: un buon horror made in Hong Kong                          



Complice quel petardo colossale di Rigor Mortis, o forse per fortunata coincidenza dopo la discreta staffetta dei due Tales from the Dark, sembra tornata freschezza nell’Hong Kong più buia e marcia delle Tradi e delle scorrettezze criminali, una sventolata soprannaturale che non si respirava con questa felice insistenza da qualche tempo. E sempre tra sincronismo ed esempio da seguire si può vedere come, dopo le prove registiche di un imponente Juno Mak alle prese con vampiri e arti marziali e un insospettabile Simon Yam che si autodistrugge lentamente, si metta dietro la macchina da presa un altro grande attore locale, il bravo Nick Cheung (tra i prediletti di Johnnie To e Dante Lam, da sempre star di molti loro film), che scrive, dirige e interpreta. 

HungryGhost Ritual non ha la forza espressiva e incantata di un Rigor Mortis, né la rigorosità affilata del miglior noir made in HK, si può invece accostare ai due Tales from the Dark proprio per la semplice base di partenza e una succosa inflessione folkloristica, dunque poche ambizioni ma schiettezza e conoscenza dei mezzi, gestione dei tempi e minutaggio asciutto, un’esperienza fatta sul campo che diventa buono, a tratti ottimo mestiere, così valido che gli si può perdonare anche più di uno scivolone. Non è una nostalgia per la follia del periodo d’oro, né un bisogno di estremizzare o di riempire di fantasticazioni storielle bonarie come può anche andare di moda adesso in più di un blockbuster, ma solo dell’orrore orientale e della sinistra atmosfera gremiti di tradizioni occulte e bizzarre superstizioni. Storia quindi molto elementare, sfrutta luoghi comuni con sincerità, si adagia su temi classici come il teatro, il ritorno del figliol prodigo, rancori famigliari e traumi sepolti nel passato per ricamarli con una sovrastruttura di dettagli dal fascino straniane, dove regole precise quanto tetre disciplinano aspetti di difficile comprensione occidentale, ma ciò non toglie che il film viva di una rigorosa mitologia, fatta di sedie da sistemare per gli spiriti, spettacoli a cui voltare letteralmente le spalle, parole da scrivere in determinati modi e complesse veglie funebri. E a questi vanno aggiunte una serie di climi fotografati con una pittura diabolica, i colori si mischiano e ricoprono il tipico fantasma orientale con una tavolozza ora satura di verde ora di rosso che sussurrano un malessere maligno e sbagliato con parecchia più efficacia delle tante, troppe apparizioni, sbattute contro lo schermo per il solito tran tran pauroso di terza o quarta categoria come occhi che pulsano di un colore differente, registri vocali che mutano e teste che girano.




Sono quindi gli aspetti atmosferici a colpire, Hungry Ghost Ritual vive di particolari che continuano a spiazzare e spingono il film asportando insicurezze, concessioni e smagliature varie, ed è un peccato che Cheung, anche sceneggiatore, non abbia visto con la giusta lucidità il potenziale della sua creatura, abbassandosi a parentesi di paura meccaniche e a un disastroso spiegone pre-finale che, per quanto si impegni, proprio non riesce a rovinare la bontà del prodotto complessivo. Inquadrature singolari si bloccano e indugiano su caviglie, gambe e ostacoli vari che coprono corpi e azioni, altre moltiplicano i primi piani con stratagemmi scenici/visivi (gli ottimi momenti sullo specchio per il trucco), mentre il non detto affiora come una qualche bestia dagli abissi, scrosta l’apparente superficialità e impregna la pellicola di un background solidissimo, sviscerato con dialoghi rapidi e definiti, pur senza il tipico vulcano di parole del cinema locale, e una serie di personaggi evidenziati da pochi ma significativi tratti (le scelte del padre, la scontrosità della troupe, la cena tra lui e lei che si prolunga inaspettatamente). 

 Spero che Hong Kong non si limiti a un solo inciso horror ma prosegua variando la sua proposta come ha sempre fatto, non serve per forza il ritorno all’esagerazione passata o a fetiscienti deliri CAT III, basta anche solo questa saltuaria presenza appena illuminata e molta silenziosa ma dall’atmosfera impeccabile.   

4 commenti:

  1. Lo avevo ignorato del tutto. Il tuo post mi fa ricredere. Interessante...

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    1. Il bello è più che altro nella confezione narrativa, perché la storia non è niente di che ma viene mostrata e mai spiegata, e c'è molta classe ed eleganza nel farlo :)

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    2. Direi proprio di sì, poi dipende se e quanto ti piace il cinema di Hong Kong :)

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