Cthulhu è andato in Giappone e Koji
Shiraishi l’ha filmato. Tanti
tentacoli ma non è un hentai
A Koji Shiraishi non gliene frega niente.
Sforna un horror all’anno come timbrasse il cartellino: solo
mockumentary low budget, ormai la sua cifra stilistica è quella, probabile abbia
le braccine corte o, boh, butterà via tutti gli introiti in mignotte e altro
non può fare. E altrettanto probabile che giri ubriaco e in mutande tutto il
giorno vista la credibilità che, dopo averla costruita con buon mestiere in un
mercato complesso e soffocante come quello dei j-horror, ha perso negli ultimi
anni. Ma, mentre la gente normale si è dimenticata della sua esistenza (persino
Wikipedia, che è indecisa sulla sua età), io lo seguo sempre nella speranza che
capiti ancora una volta dalle parti di Noroi, che tutti hanno visto e
quando lo si nomina scatta l’inevitabile “ah, quel mockumentary horror bello”.
Cult è il
suo milleseicentesimo film, credo, è guarda caso un mockumentary fatto con due
yen e attori trovati a casa rapendoli per strada, ed è un film che non si
prende molto sul serio, come a dire “non ho i soldi ma faccio lo stesso un
horror perché mi va”, che in fondo è una cosa giusta e onorevole e
pregherei davvero Gesù affinché qualsiasi autore lavorasse sulla base di questo
assunto, ma qui si sta parlando di Shiraishi, e Shiraishi è pur sempre quello
di Occult, che era un altro mockumentary horror bello almeno fino
a quando non si arrivava al finale, che prendeva per il culo chiunque alla
stregua di un Jerry Calà che fa una scoreggia.
Jerry Calà |
Il film fa parte di una sorta di trilogia
concettuale con altre due pellicole dirette da altrettanti registi, TheCrone di Eisuke Naito e Talk to the Dead di Norio Tsuruta, che
dovrebbero riprendere tematiche o qualche argomento rubandoseli l’uno
dall’altro: non li ho visti, e non ho questa grande curiosità, in fondo
Tsuruta, dopo un buona carriera, ha fatto P.O.V. e tendo a così a
scansarlo tutte le volte che posso. Del suo collega, in tutta sincerità, mi
fido anche meno.
A ogni modo, la sorpresa contenuta in questo
Cult è che tutto inizia come un qualsiasi film di Shiraishi degli ultimi
anni, ma mentre ci si aspetta il peggio a causa di un cast scarso (con tre
scolarette vestite da giornaliste che ridono e parlano per ore del più e del
meno mentre fingono di lavorare), dialoghi improvvisati (ho detto che parlano
per ore del più e del meno?) e poca consistenza atmosferica (almeno
nella sua prima metà, Cult è il documentario definitivo sul disagio
giovanile, o, boh, un video caricato su youtube per descrivere la noia), la
storia imbocca una strada sorprendentemente seriosa, prende forza e si rialza
trasformandosi in un horror quanto meno decente e con un suo fascino che si può
vedere sino alla fine.
Serietà |
La serietà è un argomento bello tosto con
un regista del genere, e per buona parte del film si rimane abbastanza confusi
dal modo in cui Shiraishi tratti magia nera ed esorcismi: nella fattispecie,
l’inutile lavoro di un instancabile monaco che recita mantra a profusione e
toglie spiriti dalla schiena dei componenti di una famiglia sfortunata fino a
quando si scontra con uno evil one troppo forte da battere, è visualizzato con un
realismo tragicomico dove le infinite preghiere, riprese interamente con gesti,
sbuffi e urla, vengono viste dalle tre giornaliste protagoniste e dallo
spettatore con lo stesso occhio stralunato e poco convinto. Si ride ma non si
riesce a smettere di guardare perché l’imbarazzo del povero monaco nel subire
la continua sconfitta è gestito quasi con commozione, si vedono la sua fatica e
la sua disperazione e, in questo momento, scatta un meccanismo insospettabile
dove l’orrore penetra nella realtà in una maniera così sottile che quasi non ci
si accorge, eravamo distratti da quel povero cristo che pregava come non ci
fosse un domani.
E infatti, quando l’infernal one inizia a
manifestarsi, nonostante un’effettistica digitale grossomodo terribile e un uso
esagerato delle zoomate per ricordare al pubblico che questo o quell’altro
particolare sono sospetti, Cult ingrana con una combo di apparizioni
riuscite (la prima, in particolare, ha una sua inaspettata efficacia) e strani
avvenimenti sanguinolenti utili a creare proprio quell’atmosfera maligna che
nella prima parte Shiraishi sembrava facesse di tutto pur di evitare.
Malignità |
Il
comportamento dei vicini, il crescendo di stranezze, il senso cosmico che si
avverte nelle intenzioni e nelle movenze aliene dell’entità avvicina
addirittura il film a un’esperienza lovecraftiana sufficientemente riuscita,
tanto che alla fine, pur nella sua astrusa conclusione – che rimane però in
linea con l’accumulo di situazioni sinistre –, se ne esce con una certa
soddisfazione, consci di aver visto un film povero, realizzato in fretta e con
mezzi di fortuna, ben lontano dall’essere bello ma con un suo decoro horror su
cui era davvero difficile scommettere.
quasi quasi mi hai convinto a recuperarlo...
RispondiEliminaProvalo, ha degli spunti mica male e in fondo non è così male come si presenta (e come fa presagire) nei primi venti minuti :)
EliminaGiappone + Lovecraft + Malignità = recupero assicurato!! :D
RispondiEliminaSì, ecco, non aspettarti poi grandissime cose, che a leggere così sembra un must see, ma come dicevo al Bradipo ci sono idee discrete e un'atmosfera molto funzionale :)
EliminaCaspita: sembra un originale un casino!
RispondiEliminaBe', effettivamente, pur essendo sempre contenuto nello schema tipico della ghost story nipponica, dell'originalità c'è, è giusto dirlo :)
Elimina