632 pagine, 19,90 euro
Ne ha chiacchierato il mondo intero come
lettura fondamentale per chi, in quel periodo, muoveva i primi passi verso
l’universo geek che l’avrebbe avvolto da più grandicello, ma gli anni Ottanta
che Ernest Cline sfrutta per il suo esordio letterario hanno un sapore ben
diverso da quello che mi ero immaginato. Costruire un intreccio così
particolare come quello alla base di Player One (chissà perché nella traduzione
si è perso il “Real” del titolo originale) è cosa lodevolissima e ambiziosa, in
fondo il rischio di proporre qualcosa di bizzarro, astruso e destinato a pochi
è piuttosto alto – bisogna essere realmente parte di un mondo e sinceramente
convinti per riuscire a dare qualcosa di buono, aspetto principale che crea
l’incredibile fascino di questo esordio. Tuttavia, paradossalmente, non sembra
trasparire alcuna passione, dalle parole
di Cline, perché tutto sembra soltanto un’infinita, chilometrica lista di nomi
di serie tv, film, canzoni, videogiochi, libri e quant’altro che vengono
sfilati quasi volesse mostrare a tutti quanto è nerd.
Ora, io lo so che in realtà le intenzioni
di Cline non sono queste, l’amore per gli eighties e la cultura pop è chiara e
palese (si sta pur sempre parlando dello sceneggiatore di Fanboys), ma la sua
prosa è talmente superficiale e la sua tecnica così imbarazzante che ogni buon
proposito svanisce di fronte a frasi acerbe, lunghissimi spiegoni, un’assoluta
mancanza di ritmo e crescendo, dialoghi adolescenziali e retard e, più in
generale, una grossa, imperdonabile faciloneria nella gestione della trama. Enormi,
enormi difetti, insomma, perché la sua pochezza stilistica, l’incapacità di
strutturare una storia, la totale negligenza nel personalizzare i suoi protagonisti,
il completo tell and don’t show di cui è farcita l’opera trasforma la
citazione di quegli anni e, in secondo piano, di certa cultura nerd che sborda
negli anni Settanta e Novanta, in qualcosa che trovo quasi scorretto nei
confronti di chi legge.
In qualsiasi altra occasione un romanzo
del genere, soprattutto pensando alla sua estenuante lunghezza, l’avrei
abbandonato dopo il primo capitolo, non serve poi molto per rendersi conto
della scarsa abilità che ha Cline con le parole e con una qualsiasi impalcatura
narrativa, ma con Player One dovevo in qualche modo arrivare fino in fondo (ehi,
leggendo veloce, saltellando qua e là e dimenticandomi magari di qualche pagina,
per carità, e poi mi sono risparmiato le ultime trenta pagine una volta capito
come sarebbe finito), perché volevo capire quali fossero gli elementi per i
quali viene incensato universalmente. E, be’, non ne ho trovato nessuno, a
partire dalla sua punta di diamante e veicolo pubblicitario.
Lo scenario tratteggiato, questo futuro
sfasciato e lasciato allo sbando, è blando e incolore, e ancora peggio è Oasis,
il gioco totale, una realtà virtuale che è più reale della realtà stessa, dove
è stato ricostruito digitalmente tutto quanto con interi pianeti dedicati a
canzoni, film e serie tv, un universo assai scialbo, descritto con un lessico
poverissimo che non rende alcuna giustizia alla vastità del videogioco
assoluto. Tutto è presentato con un pressapochismo irritante, tutto è
raccontato banalmente uccidendo di colpo qualsiasi sense of wonder e negando al
lettore il minimo, minimo stupore.
Perfino il protagonista risulta tanto
irritante da meritare, assieme ai suoi amichetti gnegne, solo odio e disprezzo dopo
poche pagine: Wade sa fare ogni cazzo di cosa, è il re dei nerd in una visione
talmente esagerata che il livello di sfida, così come non è percepito da lui in
nessuna quest affrontata, è bene o male ignorato dal lettore stesso. Wade
conosce ogni trucco, caratteristica, segreto, chicca di TUTTI, TUTTI, TUTTI i
retrogames, riuscendo a concluderli senza alcuna fatica. Come se non bastasse
ha visto, ascoltato e letto più volte QUALSIASI prodotto uscito negli anni
Ottanta, dalla Famiglia Keaton ai Rush, da D&D ai tokusatsu e passando per
Robotech (anche se, in quanto nerd, avrebbe dovuto schifarlo perché assurda rielaborazione
statunitense di ben tre serie animate del tutto diverse e non collegate tra
loro), e conosce a memoria ogni singolo fottuto istante della vita del suo
mentore James Halliday, l’inventore di OASIS, immagino anche quante volte al
giorno faceva la cacca, mi sa, e tutto questo nonostante abbia solo diciott’anni,
e insomma, okay che vive in un mondo postapocalittico e in malora senza
speranza e blablabla e non ha altro da fare se non rimbecillirsi di fronte al
pc, ma le basi di partenza, c' poco da fare, nel loro voler rievocare a tutti i costi, ma senza esserne in grado, lo spirito sincero, puro e passionale della tipica storia teen di una volta, sono pretestuose e già insopportabili, e quanto
segue è stata, per me, solo una continua, incessante, serie di mazzate sugli
zebedei.
Quindi ho capito che ti è piaciuto un sacco.... XDXDXD
RispondiEliminaIo mi sarei fermato molto prima e non l'avrei finito, quindi sei da ammirare ;)
Aspettiamo il film? Santo cielo, lo sapevo.
A parte i commenti insulsi, sai che ho letto di recente il primo romanzo di una trilogia di un certo Abreu, "Garbageland" (di cui in Italia è arrivato solo il primo. E per fortuna) che per alcuni dettagli me l'hai ricordato alla grande.
E adesso conosco un libro da evitare. gnegne.
Eh, ma l'ho pagato venti euro, dovevo leggerlo per forza! XD
EliminaMai sentito di Garbageland, eviterò volentieri :)
Pensa che io la ritengo una delle letture migliori degli ultimi due anni :)
RispondiEliminaW i pareri diversi e, perché no, opposti.
Ricordo infatti che ne dicevi bene, pareri davvero diametralmente opposti, i nostri. O sarò io che sono un brontolone che nun mi piace più nulla. ;)
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