Nel lontano 1992, il primo horror prodotto da Fangoria era una
badilata ultrasplatter e divertentissima
Facciamo un salto indietro. Nel 1990 la rivista Fangoria, dal 1979 magazine numero uno
in quanto a critica e approfondimento horror per molti, molti anni a venire, decide
di dire la propria in ambito cinematografico e finanzia un progetto ambizioso ma
destinato presto ad arenarsi. Delle intenzioni di produrre un film horror
all’anno non rimangono che tre strambe pellicole sanguinarie, di cui forse solo
una, la prima, realmente interessante, ben costruita e con un valore da offrire
al popolo affamato: Mindwarp (Children of the Night e Severed Ties saranno le altre due,
entrambe molto interessanti anche se non all’altezza della prima, vedremo di
parlarne più avanti). Scritto da John Brancato e Michael Ferris sotto lo
pseudonimo di Henry Dominick (nome che tornerà più volte in campo sci-fi dietro
a produzioni sempre dubbiose, come la gestione del Terminator post-Cameron) e diretto dal mestierante Steve Barnett, Mindwarp nasce e si mostra come film sci-fi,
con un piacevole tocco cyberpunk su quegli stessi argomenti che, qualche anno
più tardi, le Wachoski (quando erano ancora Bros) perfezioneranno mondialmente
in Matrix. Ovviamente lo abbiamo
visto tutti e sappiamo benissimo di cosa stiamo parlando: l’idea è quella di un
futuro dove le persone dormono consapevolmente tutto il tempo e trascorrono la
propria vita all’interno di un’esistenza virtuale dalla quale si scollegano
solo per sgranchirsi i muscoli e mangiare. Ma al di fuori delle megacittà dove
abita chi può permettersi tale lusso, tra i quali Judy, decisa a dare un taglio
a questa non-vita, ci sono le deadlands dominate da tribù di mostri cannibali e
poveri bastardi che cercano di sfangarla. Tra i pochi che ce la fanno, c’è lui.
Bruce Campbell proveniva da una serie di film
cult (Maniac Cop, Sundown) ma incapaci di reggere il peso
di un Evil Dead 2 e dare lustro all’esuberanza
attoriale e alla faccia da culo con cui si era fatto conoscere e amare. Di
certo Mindwarp non alza l’asticella
delle qualità generale in cui in parte ristagnava la sua carriera ma, nel
momento in cui il film sveste i panni tecnologici, affonda gli artigli in uno
scenario horror talmente sanguinoso e truculento che sembra paradossalmente
somigliare a un rodaggio per quello che succederà qualche mese dopo ne L’armata delle tenebre. Stover, il
personaggio che interpreta, non è in fondo così diverso dal più famoso addetto
al reparto ferramenta del cinema, è giusto un po’ meno coglione ma affronta
l’orrore con la stessa grinta e la mole di facce buffe, e quando inizia la gorefest non ce n’è per nessuno:
mutilazioni, sventramenti, sgozzamenti, occhi estirpati, sanguisughe che
strisciano sottopelle e macchinari per tritare le persone, il tutto annaffiato
da incessanti, davvero incessanti fiotti di sangue. Mindwarp è uno degli ultimi esemplari di film splatter genuini,
dove l’opera vive proprio per l’abbondanza di liquido rosso che inzuppa la
celluloide dall’inizio alla fine e, senza una tale abbondanza, forse non ci
sarebbe poi molto di che scrivere. Tra un eroe dell’horror a spandere carisma e
un altro a fare da raggelante villain (Angus Scrimm, uno che la sa lunga in
quanto a malvagità glaciale), una protagonista femminile come Judy potrebbe
rimanere stritolata, ma Marta Martin ruggisce e si scatena per non fare la
solita principessa che attende di venire salvata, e in più di un’occasione è
lei a trascinare la battaglia violentissima e a sovvertire i ruoli.
Un film easy ma piacevolissimo, pieno di
cazzotti contro i mostri e assurdi geyser di sangue.
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